L’aequitas romana

bilancia

Come ha ricordato il romanista Guarino, “la nozione dell’aequitas è tra le più essenziali per la comprensione del diritto romano nel suo sviluppo storico, ma è nel contempo tra le più evanescenti e incerte e contraddittorie che le fonti romane ci offrano”. Le maggiori difficoltà vengono dal fatto che i giuristi romani – per via del loro approccio strettamente casistico – ci hanno lasciato solo sporadiche definizioni del concetto di aequitas, senza elaborare alcuna dottrina paragonabile a quella aristotelica. Per quanto concerne l’origine dell’aequitas nell’antica Roma, pare certo che l’arte retorica abbia svolto un ruolo fondamentale nella sua affermazione, come testimonia un passo di Cicerone: “In hoc genere pueri apud magistros exercentur omnes, cum in eius modi causis alios scriptum alios aequitatem defendere docentur”. Sappiamo che qualche illustre giurista romano conosceva l’Etica Nicomachea: ne abbiamo conferma dal riferimento in alcune opere al concetto di synallagma, trattato e approfondito proprio da Aristotele. Tuttavia, secondo alcuni autorevoli romanisti è da escludersi una derivazione greca dell’aequitas romana, il che sarebbe confermato anche dal diverso valore etimologico del termine epieikeia il quale indica la convenienza (tant’è che qualcuno ha proposto di tradurlo col vocabolo latino “convenientia”). Non bisogna tuttavia commettere l’errore di attribuire eccessiva importanza al dato filologico: come ha osservato Frosini, non possiamo limitarci a un semplice confronto di vocaboli, ma dobbiamo valutare il significato che i due termini hanno poi assunto nella loro operatività. Sotto questo profilo, aequitas ed epieikeia hanno senz’altro qualcosa in comune, dal momento che fanno riferimento “a un determinato atteggiamento pratico, cioè al comportamento del giudice nell’atto di formulare un giudizio giuridico”. Certamente vi sono anche delle differenze, ma prima di analizzarle è necessario indagare il concetto di aequitas, il che richiede una ricognizione storica delle varie fasi del diritto romano, dal momento che l’evoluzione dell’aequitas è strettamente connessa a quella delle strutture politiche, economiche e giuridiche dell’antica Roma.

L’evoluzione storica dell’aequitas romana

Com’è noto, le prime fasi del diritto romano furono caratterizzate dallo ius civile, un diritto rigido e formale, di derivazione sacrale, riservato ai soli cives romani e considerato eterno, perfetto ed immutabile. Il regno dello ius civile dominò incontrastato finché i romani non estesero la propria influenza politica, militare e commerciale sul Mediterraneo (attorno alla metà del III sec. a.C.). Roma era ormai una realtà politica diversa da quella dei secoli passati, confinata alle terre del Lazio: il contatto con nuovi popoli (sottomessi e non) portava con sé la necessità di un’innovazione nell’ordinamento giuridico romano, che in molti suoi punti si rivelava ormai anacronistico e inadatto a soddisfare le nuove esigenze economiche e sociali.
Fu così che nel 242 a.C venne istituito il praetor peregrinus, il quale “inter cives et peregrinos vel inter peregrinos ius dicit”. Egli non era vincolato né allo ius civile né alla rigida procedura delle legis actiones: risolveva invece le controversie mediante un procedimento più rapido e meno formale, quello per formulas, dove un ruolo fondamentale svolsero i nuovi concetti di aequum bonum e di bona fides.
In questa sede l’aequitas fu quel principio che permise al pretore – nella formulazione delle actiones contenute nel suo editto – di distaccarsi dallo ius civile per addivenire a soluzioni giuridiche più innovative e maggiormente rispondenti alla nuova coscienza sociale. Essa si impose dunque come forza creativa di diritto ogniqualvolta le antiche determinazioni dello ius civile non si rivelassero più adatte a disciplinare i rapporti economici-giuridici. Come affermò Calasso, l’evoluzione del diritto romano vide nell’aequitas il proprio principio mediatore, “un unicum nella storia”.
A partire dal II sec. a.C., con la lex Aebutia, venne data ai cives la possibilità di rivolgersi al praetor urbanus utilizzando il procedimento formulare in luogo di quello per legis actiones. Anche qui si assistette ad una frequente opera derogatrice dello ius civile (anche tramite nuove actiones ed exceptiones) fino alla formazione di un nuovo sistema giuridico cui fu dato il nome di ius honorarium. Quest’ultimo non si sostituiva allo ius civile (sempre considerato il “vero” diritto dai romani): lo prendeva piuttosto come base di partenza per l’elaborazione di nuovi istituti e di nuove soluzioni, che trovavano la propria legittimazione nell’imperium del magistrato e la propria ispirazione nella dottrina e nelle opere dei giuristi più illustri (auctoritas prudentium).
È curioso notare che un dualismo simile a quello tra ius civile e ius honorarium si presentò nel diritto inglese circa millecinquecento anni più tardi, dove accanto ad un Common Law ormai immobile e irrigidito dalla cosiddetta “serrata dei writs” si formò un nuovo impianto giuridico, l’Equity, dotato di un proprio sistema giudiziario atto a risolvere le controversie proprio secondo equità: il risultato fu la creazione di nuovi istituti giuridici che si affiancarono a quelli più risalenti.
Tornando al diritto romano, l’aequitas dell’età classica finì in conclusione per rappresentare quell’ideale di perfetta giustizia a cui l’intero ordinamento doveva conformarsi. Questo ruolo si rafforzò ulteriormente nell’epoca successiva: infatti una famosa costituzione di Costantino del 314 affermava: “Placuit in omnibus rebus praecipuam esse iustitiae aequitatisque quam stricti iuris rationem”. Le ragioni dell’equità e della giustizia (da intendersi qui come sinonimi) devono sempre prevalere su quello del diritto stretto.
Nell’epoca giustinianea, anche per via dell’influenza del Cristianesimo, l’equità romana conobbe una trasformazione non indifferente, finendo per identificarsi in molte circostanze con nuovi principi di matrice religiosa, quali la misericordia e la benignitas, come di fatto avveniva nelle actiones arbitrariae, in cui “permittuntur iudici ex bono et aequo aestimare”: i giudici molto spesso decidevano le controversie secondo i suddetti principi teologici, dando vita a quell’aequitas che in tempi più tardi venne poi definita sprezzantemente come “cerebrina” e “bursalis” (che si tira fuori dalla borsa all’occorrenza). L’equità andava sempre più affermandosi come un’applicazione benevola della legge, quando invece in epoca classica poteva benissimo essere anche un’aequitas severitatis, vale a dire un’equità che conduceva a soluzioni più severe di quelle previste dalla legge.
L’aequitas naturalis in particolare finì per sovrapporsi allo ius naturale, che cominciava ad
essere inteso proprio in questo periodo come l’ordine naturale delle cose stabilito da Dio.

L’aequitas nelle fonti romane: Cicerone e Labeone

Sarebbe un lavoro interminabile rendere conto di tutte le principali definizioni di aequitas contenute nelle fonti romane. È tuttavia necessario concentrare l’attenzione su alcune di esse per arrivare alla delineazione di quegli elementi comuni che ci possano consentire di dare un’idea del concetto di aequitas romana, seppur approssimativa.
ciceroneUno degli autori più fecondi sul tema fu Cicerone. Prima di tutto, Cicerone delinea l’aequitas secondo il suo significato originario di eguaglianza e parità: “valeat aequitas, quae paribus in causis paria iuria desiderat”. L’equità dunque appare come la necessaria eguaglianza di trattamento giuridico (paria iuria) a fronte di una parità di situazioni (paribus in causis). In sintesi, essa richiede che a situazioni uguali corrisponda un eguale disciplina.
In seconda battuta, Cicerone parifica l’aequitas alla iustitia: “Iustitia est aequitas” è la brevissima ma quanto mai significativa definizione che troviamo in Rhet. Her. 3.3. Essa trova in parte conferma nella celebre definizione di Celso: “Ius est ars boni et aequi”, dove si mette in luce lo stretto nesso tra diritto, giustizia ed equità.
Altrettanto fondamentale è la distinzione fra aequitas constituta ed aequitas naturalis: la prima è quella insita nell’ordinamento, la seconda è quella che sta al di fuori di esso. In relazione all’aequitas constituta, Cicerone ne distingue tre species: una pars legitima (quella rinvenibile nello ius scriptum), una conveniens (fondata sugli accordi) e infine una moris vetustate firmata (consolidata cioè negli mores degli antichi). Questo tipo di equità coincide perfettamente col diritto: “Ius civile est aequitas constituta”. Cicerone inoltre afferma che la caratteristica propria dello ius civile è quella di essere aequabile – neque enim aliter esset ius – e che la legge stessa deve considerarsi fons aequitatis. Tuttavia l’equità non si esaurisce completamente nello ius: una parte di essa – cioè l’aequitas naturalis – ne rimane fuori, svolgendo comunque un ruolo fondamentale per l’ordinamento. Tale equità ha infatti una funzione di ispirazione e di incitamento: potremmo affermare che essa stessa aspiri a divenire ius o per meglio dire a modellare il diritto vigente, correggendolo, modificandolo, rendendolo più confacente alla coscienza comune e alle nuove esigenze sociali.
Va infine ricordato che fra le diverse significazioni dell’equità nei testi ciceroniani troviamo anche quella di criterio interpretativo della legge: “Nihil esse tam regale quam explanationem aequitatis, in qua iuris erat interpretatio, quod ius privati petere solebant a regibus”. Anche in Labeone troviamo frequenti riferimenti all’aequitas, così come al suo contrario, l’iniquitas. In particolare Labeone si serviva dell’equità per formulare soluzioni innovative, in pieno accordo dunque con lo spirito dell’aequitas romana.
Possiamo citare un paio di esempi. In un caso Labeone teorizza l’applicazione analogica dell’editto “de incendio ruina rate nave expugnata” all’ipotesi di rapina di una villa o di una casa, e ciò per ragioni equitative. Il celebre giurista romano, a fronte della lacuna normativa, asseriva che l’assalto dei pirati potesse essere paragonato all’aggressione di una villa da parte di briganti. Qui dunque l’aequitas torna nella sua accezione ciceroniana di eguaglianza: a fronte di situazioni simili è necessaria una medesima disciplina. L’equità serve in questo caso a Labeone per giustificare un’applicazione analogica della legge.
Un secondo esempio è rinvenibile in una decisione di Labeone in materia di dolo: “il giurista considera iniquum che si consenta all’attore nei cui confronti sia stata concessa una exceptio doli di contrapporre una replicatio doli; infatti, l’equità che giustifica la tutela concessa dal magistrato con l’exceptio doli non può ammettere che l’autore del raggiro tragga in alcun modo vantaggio dal suo comportamento immorale” (L. Solidoro Maruotti). In questo caso dunque viene negata una particolare tutela processuale con la giustificazione che la sua concessione sarebbe “iniqua”, contraria dunque al comune sentimento di giustizia (“iustitia est aequitas”).

Sintesi del concetto

Possiamo provare a riassumere i tratti distintivi dell’aequitas romana, in particolare di quella classica. Rimane tuttavia il rischio dell’approssimazione, né si pretende di dare una definizione esaustiva del concetto.
L’aequitas romana coincide essenzialmente con la perfetta giustizia dalla quale l’ordinamento non deve mai distaccarsi e a cui invece deve sempre ispirarsi, modificando le proprie soluzioni qualora la coscienza comune e le nuove istanze sociali lo richiedano. Secondo l’opinione di Guarino, almeno fino all’età classica i termini aequum e iniquum hanno significato infatti la rispondenza o meno della norma alla coscienza sociale del momento storico in cui essa trovava applicazione, ragion per cui ciò che era iustum (cioè conforme a ius) poteva anche apparire iniquum, e ciò che appariva aequum poteva anche essere iniustum.
L’equità così intesa costituisce un vero e proprio “principio informatore del diritto”, qualcosa che sta nello stesso tempo alla base della legge scritta, permeandola (aequitas constituta), e al di fuori di essa, spingendo verso innovazioni della norma o estensioni della stessa a casi simili (aequitas naturalis).
L’aequitas romana è inoltre quell’istanza di eguaglianza che non può accettare soluzioni diverse per casi identici. Essa “tende a ristabilire l’equilibrio turbato da una deviazione della norma giuridica all’ideale di perfetta giustizia” (P.G. Caron).
Per ultimo, l’equità vale anche come criterio ermeneutico della legge, il che ci sarebbe peraltro testimoniato da un passo di Ulpiano, dove a proposito della necessità di discostarsi dal rigore della legge ove essa produca risultati iniqui si afferma: “In summa, aequitatem quoque ante oculos habere debet iudex”.
Ci rimangono infine da analizzare le differenze con l’epieikeia aristotelica. Possiamo senz’altro notare come quest’ultima manchi di quella funzione generale propria dell’aequitas romana: l’epieikeia interviene infatti come “giustizia del caso concreto”, non tanto come principio a cui l’ordinamento deve ispirarsi. Nella visione aristotelica sembra mancare quel rapporto di influenza tra equità e diritto proprio dell’esperienza romana: l’epieikeia si manifesta solo come correttivo della legge quando essa sia difettosa a causa della propria universalità. L’aequitas romana dunque è qualcosa di più vasto e totalizzante: se è anche epieikeia, “essa peraltro non è solo epieikeia” (A. Guarino).

Equità e diritto nella Grecia classica

Chiunque – anche chi non ha alcuna familiarità col diritto – avrà senz’altro constatato che in molte situazioni la giustizia e le leggi non coincidono. Non sono pochi infatti i casi in cui l’applicazione rigida e formale di una norma giuridica è tale da produrre risultati iniqui, cioè da ripugnare il comune sentimento di giustizia. Questa particolare circostanza – da cui il brocardo latino “summum ius, summa iniuria” – è stata motivo di riflessione fin dall’antichità. Il concetto di equità ha infatti una storia millenaria che trae origine dal mondo greco e arriva fino ai giorni nostri.

aristotele

L’equità presso i greci era nota col termine di epieikeia, che etimologicamente differisce dal latino aequitas: questo indica la parità e l’eguaglianza, quello la convenienza e la moderazione. Epieikèies infatti significa letteralmente “conveniente”. La dottrina dell’epieikeia – che tanta influenza ebbe nei secoli successivi, anche presso i canonisti – è stata formulata nel IV secolo a.C da Aristotele, al quale va senz’altro il merito di aver per primo ragionato sulle implicazioni giuridiche dell’equità. Non è un caso dunque se tutte le ricostruzioni storiche sul tema partono proprio dal filosofo di Stagira. Detto questo, bisogna però ricordare che non fu Aristotele ad inventare il concetto di epieikeia, già esistente nello spirito greco e nominato frequentemente anche da autori più antichi. E quindi, prima di analizzare i celebri scritti dell’Etica Nicomachea e della Retorica, ripercorrerò brevemente la storia della nozione di equità antecedente la riflessione aristotelica.

L’equità nell’esperienza pre-aristotelica

Nelle sue Storie, Erodoto – vissuto nel VI sec. a.C. – oppone il diritto all’equità:“L’ostinazione è una cosa riprovevole: non cercare di sanare un male con un altro male! Molti al rigido diritto preferiscono l’equità più ragionevole”. Abbiamo inoltre notizia di risoluzioni equitative delle controversie nell’Atene del V secolo a.C. : i cittadini che erano sorteggiati per adempiere alle funzioni giudiziarie nel tribunale popolare (Eliea) si impegnavano – prestando il cosiddetto “giuramento eliastico” – a decidere le cause in conformità alla legge (nòmos) e all’opinione più giusta (gnòme dikaiotàte). Gli studiosi si sono divisi sul significato da attribuire a quest’ultimo riferimento: alcuni vi hanno visto una fonte suppletiva in caso di lacune legislative, altri la possibilità di emanare sentenze che salvaguardassero l’equità del caso anche a costo di allontanarsi dal tenore letterale della legge. Vista l’assenza di un vero e proprio principio di legalità presso gli antichi greci, la seconda interpretazione probabilmente coglie più nel segno.
Il testo del giuramento eliastico non riporta la parola “epieikeia” e tuttavia in esso troviamo ancora una volta opposti il diritto stretto (espresso dai nòmoi) e una giustizia che evidentemente si situa al di fuori della legge (la gnòme dikaiotate).
Anche Platone (maestro di Aristotele) affronta in alcune delle sue opere la questione dell’epieikeia, seppur incidentalmente. I brani di riferimento in materia sono contenuti nel Politico e nelle Leggi, dove il filosofo si occupa di stabilire quale sia il governo ideale. Nel Politico – secondo le parole dello studioso Jager – troviamo come tesi centrale quella per cui “il perfetto monarca sarà sempre preferibile alla perfetta legislazione, perché la legge irrigidita nella scrittura non si può adattare con sufficiente prontezza al mutare delle situazioni. Platone infatti afferma: “Una legge, anche se comprendesse perfettamente ciò che è migliore e nello stesso tempo più giusto per tutti, non sarebbe mai in grado di dare gli ordini migliori”.
Un monarca saggio rende inutile la giustizia legale: egli stesso è epieikeies, cioè equo, capace di individuare in ogni situazione la soluzione più adatta. Più tardi però Platone si rende conto dell’eccessivo idealismo di questa sua prospettiva: il monarca perfetto non esiste e dunque il rischio concreto è quello di finire vittime degli abusi di un tiranno. Nell’opera successiva Le Leggi capovolge perciò la propria visione, sostenendo che il governo delle leggi sia senz’altro la migliore opzione politica nella realtà. Un simile governo tuttavia non può conoscere deviazioni o turbative, di qualsiasi genere esse siano: affinché l’autentica giustizia possa realizzarsi, secondo Platone è necessario che delle leggi sia dia un’applicazione rigorosa. In una simile cornice, l’epieikeia (qui intesa come mitezza ed indulgenza) risulta dannosa e pericolosa: “L’equità, infatti, e l’indulgenza sono un’infrazione del significato compiuto e perfetto della giustizia autentica”.
L’epieikeia dunque, già prima di Aristotele, viene configurata in termine antitetici rispetto al diritto. A volte se ne auspica l’utilizzo, altre volte – come in Platone – si vuole mettere in guardia da essa e dai suoi presunti effetti distorsivi.

L’epieikeia aristotelica

Ora possiamo venire ad Aristotele. Per ricostruire la sua dottrina dell’epieikeia, è necessario partire anzitutto dal testo dell’Etica Nicomachea (libro V).
Dopo aver analizzato il rapporto intercorrente fra equo (epieikeies) e giusto (dikaios), ed aver specificato che l’equo “è sì giusto, ma non il giusto secondo la legge”, il filosofo aggiunge che esso deve essere considerato come il “correttivo della giustizia legale”, infatti: “è questa la natura dell’equo: un correttivo della legge, laddove essa è difettosa a causa della sua universalità”.
Il punto è fondamentale, dal momento che tutta la dottrina di Aristotele in tema di equità verte sul carattere universale della norma a causa del quale molto spesso la legge risulta difettosa: di alcuni casi infatti “non è possibile trattare correttamente in universale”. Il legislatore dunque è costretto ad approssimare, prendendo in considerazione solo l’id quod plerumque accidit, vale a dire ciò che si verifica nella maggior parte dei casi.
L’errore non sta nella legge né nel legislatore, ma “nella natura della cosa, giacché la natura delle azioni ha proprio questa intrinseca caratteristica”.
Come in molte altre circostanze, Aristotele mostra un orientamento diverso da quello del proprio maestro Platone, e a differenza di quest’ultimo che considerava l’equità uno sviamento dall’autentica giustizia, egli ritiene necessario farvi ricorso proprio con riferimento a quella minoranza di casi sui quali il legislatore non ha potuto porre il proprio sguardo.
“Quando dunque la legge parla in universale, ed in seguito avviene qualcosa che non rientra nell’universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa e non ha colto nel segno, per aver parlato in generale, correggere l’omissione, e considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione”.
Il legislatore, dovendo disciplinare in generale una determinata fattispecie concreta, è impossibilitato nel valutarla in tutte le sue sfumature, o per meglio dire in tutti i suoi mutamenti, ed è dunque costretto a modellare la norma tenendo in considerazione solo ciò che si verifica nella maggior parte dei casi. Questo però non significa che la corrispondente minoranza non sia disciplinata. La norma c’è e vale anche per quei casi, e tuttavia mal si adatta ad essi perché il legislatore – costretto a generalizzare – ha dovuto ometterli dalla propria valutazione.
Quello che propone Aristotele dunque è la disapplicazione della legge per far posto ad una norma che il giudice ha il compito di individuare ponendosi nell’ottica del legislatore: “Equo è chi non è pignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se ha il conforto della legge”.
Aristotele approfondisce ulteriormente il tema nella Retorica. Qui, dopo aver ribadito che “l’equo sembra essere giusto, ma esso è il giusto che va oltre la legge scritta” afferma:
“Ciò avviene in parte per volere dei legislatori, in parte non per loro volere: il secondo caso è quando sfugge loro qualcosa, il primo quando essi non possano prescrivere esattamente, ma sia necessario dare una formula generale, che non vale universalmente, ma solo per lo più”.
La legge dunque può rivelarsi difettosa non solo per le ragioni precedentemente esposte (generalizzazione della norma) ma anche per una semplice svista del legislatore. In entrambi i casi l’epieikeia interviene suppletivamente, come fonte formale di diritto. Ci sono inoltre casi in cui il giudizio si basa sempre ed esclusivamente su valutazione equitative, a prescindere da quanto prescrive la legge: più precisamente, si tratta dei casi in cui le parti preferiscono un arbitrato. A tal proposito Aristotele scrive: “[essere equi] è preferire un arbitrato piuttosto che una lite in tribunale: infatti l’arbitrato bada all’equità, il giudice alla legge; e l’arbitrato è stato inventato proprio per questo, per dar forza all’equità”.
L’epieikeia svolge infine un’ultima funzione secondo Aristotele: essa infatti può fungere anche da criterio ermeneutico della legge, e in questa veste si manifesta come interpretazione del dato normativo non secondo il tenore letterale della norma ma in conformità allo spirito della legge. Sempre nella Retorica troviamo il seguente passaggio: “Essere equi significa essere indulgenti verso i casi umani, cioè badare non alla legge, ma al legislatore, e non alla lettera della legge, ma allo spirito del legislatore”.
In conclusione possiamo affermare che per Aristotele l’equità è “il diritto del caso singolo” e può svolgere, a seconda dei casi, una funzione suppletiva, correttiva o ermeneutica.

“Il Castello”, Franz Kafka

kafkaUn romanzo incompiuto, che nega al lettore di capire a pieno la fitta simbologia che lo domina, un libro chiaramente metaforico ma quasi impossibile da interpretare: questo è il Castello di Kafka.

La trama, in breve: l’agrimensore K. viene assunto da un misterioso Conte, che gli dà la possibilità di esercitare la sua professione in un villaggio, fino a prima sconosciuto a K.; questo villaggio ha la sua sede governativa e burocratica nell’inaccessibile Castello, abitato da funzionari, segretari e politici di vario tipo. La gente del villaggio è totalmente soggetta al Castello, nessuno ci è mai stato, ma tutti obbediscono alle sue ordinanze senza battere ciglio. Anche gli uomini del Castello sono inarrivabili, e agli occhi dei cittadini devono apparire come delle mezze divinità. K. arriva al villaggio, ma viene costantemente ostacolato nell’esercizio della sua professione dagli abitanti e soprattutto dalla lentezza dell’apparato burocratico del Castello. K. non può tollerare una simile situazione, e decide di incontrare chi di dovere per chiedere spiegazioni; la persona in questione è Klamm, uomo del Castello per il quale tutti gli abitanti del villaggio provano una smisurata riverenza. Nel frattempo K. seduce Frieda, l’amante di Klamm, che forse lo può portare più vicino a lui. Aspettando l’incontro chiarificatore, K. intraprende con Frieda il lavoro di bidello in una scuola elementare, ma poco dopo Frieda lo lascerà. Intanto K. ottiene un incontro con un segretario di Klamm: forse è l’occasione giusta per rimettere tutto a posto, e invece no: il segretario è stato mandato solo per comunicargli che Frieda deve tornare all’Albergo dei Signori, cioè nel luogo in cui si trovava prima che K. se ne innamorasse. Il romanzo si interrompe sostanzialmente qui.

Che cos’è il Castello? Che cosa rappresenta? Senza un finale è difficile dare una risposta a queste domande. Forse è meglio partire da quello che possiamo definire ‘sicuro’. Il protagonista ad esempio, l’agrimensore K.

K. veste alla perferzione il prototipo del protagonista kafkiano: solo contro tutti, immerso in un mondo e in una realtà che non gli appartengono e di cui non riesce a comprendere i meccanismi. K. è ragione ed etica allo stesso momento, ma nessuno lo capisce, anzi, tutti lo emarginano in nome di un concetto di giustizia chiaramente rovesciato rispetto a quello di K. Ma questo concetto di giustizia è lo stesso a cui si rifà inevitabilmente anche il lettore, che dunque non può fare a meno di immedesimarsi nel protagonista e di compatirlo.

Cosa vuole K. infine? Un semplice incontro chiarificatore con le autorità, null’altro. Del resto è stato chiamato in quel villaggio per esercitare la sua professione. Perchè tutti glielo impediscono? E soprattutto, perchè il Castello non muove un dito in suo favore o almeno non dimostra un minimo di comprensione per la sua situazione? Il povero K. si trova a combattere da solo contro un sistema governato da una burocrazia tanto illogica quanto lenta, e non trova nessun appoggio al villaggio; lì sono abituati al sistema, e non lo ritengono ingiusto. Per loro è così, punto. Il pazzo ai loro occhi è K., che pretende addirittura di parlare con Klamm, di mettersi in contatto col Castello. ‘Ma chi crede di essere?’ è come se si domandassero costantemente.

Franz_Kafka_from_National_Library_IsraelIl Castello è inarrivabile. Il Castello vede e domina tutto dall’alto. E’ evidente che se potesse K. lo salirebbe, ma non gli è concesso, è impensabile una cosa del genere. Qui si può partire con le intepretazioni. Il Castello è forse l’Infinito, l’Assoluto, Dio? Difficile da credere, perchè in comune con queste entità ha solo la caratteristica di non essere raggiungibile, con la naturale solennità che ne consegue. Il Castello è pensabile ma non conoscibile, come il noumeno di Kant. Ma probabilmente cercare somiglianze tra il Castello e idee di matrice filosofica o religiosa non ci conduce sulla strada giusta.

Il Castello non è solo l’irraggiungibile, ma anche l’assenza di comunicazione, il dispotismo, l’ingiustizia, la tirannia. Tutti obbediscono a quello che viene deciso lassù, nessuno si permette di discutere o di chiedere chiarimenti o addirittura di esprimere la propria idea. Non esiste democrazia al villaggio, ma quello che è più preoccupante è che non esiste nemmeno sete di democrazia. K. è il primo a portarne, ma tutti lo prendono per stupido o qualcosa del genere. Sotto questo punto di vista il Castello è il paradigma del dispotismo e della cieca obbedienza del popolo ignorante e inetto. Ma il Castello è anche assenza di logos, di parola, di discorso, perchè manca comunicazione. Il Castello comanda, il villaggio obbedisce. Questo non è dialogo. K. dunque finisce in un sistema anti-democratico, in cui gli uomini del potere disdegnano addirittura la vista di quelli che effetivamente sono i loro sudditi e in cui i ‘sudditi’ provano una forte complesso di inferiorità rispetto al Castello.

Il Castello potrebbe essere semplicemente il paradigma dello Stato degradato, dove il rapporto paritetico tra cittadini e detentori del potere è pura utopia e dove la democrazia è solo un miraggio. Questa è una lettura politica. Ma se ne potrebbe proporre anche una psicologica: il Castello è la chiusura e la solitudine dell’Uomo, che si arrocca in cima, in alto e non ascolta nulla e nessuno. Oppure la solitudine potrebbe essere quella di K., vittima di una società insensibile ai problemi del singolo e che punta solo ad andare avanti, senza farsi scrupolo di nessuno.