Perché il diritto non è nato in Grecia

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In molti si sono domandati per quale ragione il diritto sia nato a Roma e non in Grecia. Può sembrare strano infatti che i greci – nonostante le alte vette raggiunte in altri campi come l’arte e la filosofia – non abbiano sviluppato per primi una scienza giuridica.
Ovviamente anche in Grecia vi erano delle leggi, come in ogni civiltà umana, mancava però un metodo, una scienza del diritto. Quella nacque solo a Roma. Il greco antico non conobbe alcuna parola per indicare il diritto o il giurista, una figura quest’ultima che di fatto non esisteva. Già, perché in Grecia c’erano filosofi, architetti, scultori, storici, medici ma non giuristi.
Sorge spontaneo chiedersi il motivo di questo vuoto nel mondo greco e quali condizioni resero invece possibile il decollo di una scienza giuridica a Roma. Il professor Emanuele Stolfi – nella sua “Introduzione allo studio dei diritti greci” (Giappiccheli, Torino, 2006) – fornisce una possibile spiegazione, che a suo parere va cercata nel diverso modo che i greci e i romani avevano di concepire il proprio rapporto con la divinità.

“Chi confronti i profili più risalenti dell’esperienza religiosa greca e romana coglie alcuni elementi distintivi di estremo interesse […]. In Grecia incontriamo una percezione del sacro che si lega a una formidabile inventiva mitologica e cosmogonica, che continuamente si alimenta di rivisitazioni, accumulazioni e connessioni, attingendo a fasi remote della propria storia e, al contempo, a strati sempre più profondi dell’interiorità umana, disseppellendo angosce e pulsioni: ma al fine di esorcizzarle nella conoscenza, non per gestirle o prevenirle tramite una rete di comportamenti prescritti e di atti rituali. Del resto, l’osservanza di questi ultimi non sarebbe mai in grado, da sola, di garantire il compiersi dell’effetto sperato: per quanto sia scrupolosa l’attenzione rivolta alla rivelazione del dio, nessun uomo potrà essere certo di non compiere ingiustizie, e correrà sempre il rischio di macchiarsi dei misfatti più atroci. Il caso di Edipo è emblematico: per sfuggire al compimento dell’oracolo di Delfi egli evita di tornare a Corinto, ma è proprio per scongiurare ogni rapporto con quelli che crede i suoi veri genitori, che in realtà egli si fa strumento del proprio destino, e si avvia verso l’uccisione del padre e le nozze incestuose con la madre[…].

Nessuna osservanza dei precetti divini e nessun compimento di gesti rituali può tenere indenne l’individuo dalla sciagura, se in tal senso spinge il destino, la volontà degli dei o gli atroci, oscuri meccanismi che a distanza di generazioni danno cadere sui figli o i nipoti le colpe dei padri e dei nonni […].

Il rapporto dei romani con le proprie divinità è non meno angoscioso: si tratta però di una forma di angoscia diversa. L’uomo romano arcaico non ha in pratica piena libertà in alcun suo gesto socialmente rilevante: perché esso vada a buon fine, ne scaturisca “magicamente” l’effetto voluto e non si susciti l’ira di un dio, occorre rispettare una procedura determinata, fissa e invariabile, stilizzazione di un comportamento che sia gradito alle divinità e si quindi formalizzando in rito. E’ quest’ultimo, dunque, l’elemento determinante nel vissuto della città in età monarchica e protorepubblicana: la stretta osservanza del rito garantisce stabilità e protezione altrimenti irreperibili, e a prassi rituali ci si affida per accostarsi alla divnità, ma anche per dichiarare la guerra, per trasferire la proprietà, per contrarre un matrimonio e persino per raccogliere le messi senza che si adirino le relative divinità.
Contrapporre mito greco e rito romano ha forse qualcosa di semplicistico, ma ci conduce – mi sembra – nella direzione giusta. E dietro quei due diversi stili di religiosità, non è difficile riconoscere i prodromi delle successive forme di razionalità laica a cui si darà vita da una parte e dall’altra: nel mondo greco, un impianto speculativo di grande profondità, che si costituisce come amore della conoscenza (philosophìa appunto) e ricerca del vero; a Roma, una tecnica che non mira al puro sapere né allo scavo nell’interiorità umana, ma a un disciplinamento minuzioso dei comportamenti sociali, che non porta mera conoscenza ma ordine pubblico e stabilità, anche nelle condotte che il potere politico non può soffermarsi a regolare”.

Statue

Tra le tante forme d’arte che esistono, le statue hanno una particolarità: vengono realizzate solo per i morti o per le divinità.

Una persona può essere raffigurata in tanti modi (un tempo c’erano dipinti e ritratti, da un secolo e mezzo a questa parte esiste anche la fotografia) ma se fate attenzione, nessuno prima di morire è ritenuto degno di una statua. Sarebbe visto come un oltraggio al buon gusto, o come una forma di megalomania. Gli imperatori e i dittatori si facevano costruire delle statue, ma questo per attribuirsi un carattere divino.

Generalmente vale questa regola: come non si può far santo un vivo, non si può nemmeno alzare una statua in onore di una persona che non è ancora morta.

La vita e il pensiero di Friedrich Nietzsche

Introduzione all’opera di Nietzsche “Così parlò Zarathustra”, Casa Editrice Ghelfi (Milano), terza edizione, anno 1956. 

Federico Nietzsche nacque a Röcken, in Prussia, il 15 Ottobre 1844: orfano di padre in giovanissima età, ebbe un’educazione severa; preferì fin da fanciullo i libri ai giochi, e, giovanetto, leggeva la Bibbia agli altri con accenti ispirati.

A diciott’anni perse la fede in Dio e passò il resto della vita a cercare una nuova divinità in sostituzione di quella: credette di averla trovata nel Superuomo. Divenne cinico e pessimista, ed in ciò ebbero grande influenza le opere di Schopenhauer; ma ben presto denunziò il pessimismo come una forma di decadenza, ed esaltò la tragedia come l’aspetto bello e vitale dell’umanità. A vent’anni era già un infelice cui per tutta la vita mancò la serenità del saggio e la calma di una mente equilibrata. A 25 anni fu nominato professore di filosofia classica all’Università di Basilea.

Ebbe una grande ammirazione per Bismark e per le sue sanguinarie imprese, e quando nel 1870 scoppiò il conflitto franco-tedesco, sentì quanto fosse grande la potenza della parola “Stato, che è richiamo del sangue che innalza all’eroismo”: “Sentii per la prima volta che la più forte e alta volontà di vivere non si estrinseca nella misera quotidiana lotta per la vita, ma nella volontà di fare la guerra, nella volontà di potenza e prepotenza”.

Da questa ispirazione nacque Così parlò Zarathustra. Zarathustra è il vangelo di Nietzsche ed i libri successivi ne costituirono il commento. Con Al di là del bene e del male e Genealogia della morale si ripromise di distruggere la vecchia impalcatura morale dell’umanità, preparando il terreno alla morale del Superuomo, per la quale l’onore (concetto pagano, romano, feudale, aristocratico) è forza e potenza, e coscienza (concetto ebraico, cristiano, borghese, democratico) è debolezza ed inutile pietà. Lo stesso amore non è in fondo che desiderio di possesso: corteggiare una donna assomiglia a un combattimento, col possederla la si domina.“L’uomo è l’animale più crudele” dice Zarathustra.

La via che conduce al Superuomo deve passare necessariamente attraverso un regime aristocratico; prima che sia troppo tardi la democrazia, “questa mania di contare i nasi!”, deve essere sradicata. Ed alla ricerca di questo Superuomo, Nietzsche dedicò tutto se stesso, credendo in esso come salvatore dell’umanità: lottò contro il sistema morale tradizionale: negandone la validità in nome di una nuova morale: quella dell’eroe. Zarathustra dice: “Amo colui che vuole la creazione di qualcosa oltre se stesso, e poi perisce”.

L’intensità del pensiero consumò Nietzsche, ossessionandolo fino alla follia, e nella demenza, lo spregiatore della felicità, trovò il primo attimo di pace della sua vita. E la natura ebbe forse pietà di lui il giorno in cui gli tolse la ragione. Morì, pazzo, nel 1900. Di lui Will Durant scrisse: “Giammai un uomo pagò a più caro prezzo la sua genialità”.

La scommessa di Pascal

Uno degli argomenti della filosofia moderna più celebri è senza dubbio la ‘scommessa’ di Pascal, delineata nell’opera Pensèes (Pensieri) che raccoglie le principali riflessioni del filosofo francese.

Dio esiste o no? Secondo Pascal tutti dobbiamo rispondere a questa domanda, nessuno escluso; l’epochè scettica, ovvero la sospensione del giudizio, qui non è applicabile perché chi decide di non scegliere in realtà una scelta l’ha presa.

Il faut parier, cela n’est pas volontarie. Vous êtes embarqués” (bisogna scegliere, non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete dentro): vale a dire che siamo tutti ‘embarquès’ sulla nave della vita, dunque non possiamo astenerci dal dare risposte, specialmente di fronte a una domanda come quella riguardante l’esistenza divina.

Assodato che tutti dobbiamo scegliere tra l’esistenza e la non esistenza di Dio, come possiamo essere aiutati nella nostra risposta dalla ragione? In nessun modo, sentenzia Pascal. Il filosofo francese si dice convinto del fatto che la ragione qui non può determinare proprio nulla, perché Dio non può essere né dimostrato né respinto con argomentazioni logiche o filosofiche.

Ed è a questo punto che viene teorizzata la scommessa:

“Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste”

Questa è in breve la condizione di chi scommette in favore dell’esistenza di Dio: se vince, come premio per la sua fede, avrà la beatitudine eterna, mentre se perde finisce col rimetterci solo dei beni finiti, cioè quelli che offre la nostra vita terrena e che Pascal non esita a definire un ‘nulla’. Quindi già per questo motivo varrebbe la pena scommettere su Dio. L’argomentazione poi prosegue e si fa di carattere puramente logico:

Siccome c’è uguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c’è eguale probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c’è un’eternità di vita e di beatitudine. Stando così le cose, quand’anche ci fosse un’infinità di casi, di cui uno solo in vostro favore, avreste pur sempre ragione di scommettere uno per avere due; e agireste senza criterio, se, essendo obbligato a giocare, rifiutaste di arrischiare una vita contro tre in un giuoco in cui, su un’infinità di probabilità, ce ne fosse per voi una sola, quando ci fosse da guadagnare un’infinità di vita infinitamente beata. Ma qui c’è effettivamente un’infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita., e quel che rischiate è qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza: dovunque ci sia l’infinito, e non ci sia un’infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c’è da esitare: bisogna dar tutto”

Chi scommette ha il 50% di probabilità sia di vincere che di perdere. Dunque se ci fossero da guadagnare due vite contro una, dice Pascal, converrebbe già scommettere, e a maggior ragione se le vite da guadagnare non fossero due, ma tre. Il fatto è che qui non ci sono due, tre o quattro vite, ma un’infinità di vita infinitamente beata. Anche se ci fossero infinite probabilità di perdere, contro una sola di vincere, converrebbe scommettere, perché non si perde nulla e si ha la possibilità di guadagnare una vita infinita. Ma in questo caso le probabilità di perdere, come detto fin da principio, non sono infinite, bensì finite: 50%. Non bisogna esitare dunque: qui esiste una possibilità su due di guadagnare l’infinito, e quindi bisogna dare tutto, scommettendo su Dio.

Dialoghi tratti da “Il settimo sigillo”, Ingmar Bergman

Il cavaliere Antonius Block, tornato in patria dalle Crociate, discorre con la Morte su Dio e sul senso della vita.

Cavaliere Block: Vorrei confessarmi ma non ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto. Ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare, mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi vedo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili; vi scorgo immagini d’incubo, nate dai miei sogni, dalle mie fantasie.

Morte: Non credi che sarebbe meglio morire?

Cavaliere Block: E’ vero.

Morte: Perché non smetti di lottare?

Cavaliere Block: E’ l’ignoto che m’atterrisce.

Morte: Il terrore è figlio del buio.

Cavaliere Block: Sì, è impossibile sapere…ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde dietro mille e mille promesse e preghiere sussurrate ed incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? E cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me e sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se io Lo maledico e voglio strapparLo dal mio cuore? E perché nonostante tutto Egli continua ad essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? Mi ascolti?

Morte: Certo.

Cavaliere Block: Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi, voglio la certezza, voglio che Iddio mi tenda la mano e scopra il Suo volto nascosto, e voglio che mi parli.

Morte: Il Suo silenzio non ti parla?

Cavaliere Block: Lo chiamo e Lo invoco e se Egli non risponde io penso che non esiste.

Morte: Forse è così, forse non esiste.

Cavaliere Block: Ma allora la vita non è che un vuoto senza fine? Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno, come cadendo nel nulla, senza speranza!

Morte: Molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose.

Cavaliere Block: Ma verrà il giorno in cui si troveranno all’estremo limite della vita.

Morte: Sì, sull’orlo dell’abisso…

Cavaliere Block: Lo so, lo so ciò che dovrebbero fare. Dovrebbero intagliare nella loro paura un’immagine, alla quale poi dare il nome di Dio.

Il cavaliere Block assiste assieme allo scudiero Jons al rogo di una ragazza condannata per stregoneria. L’innocenza della giovane donna è palese agli occhi dei due personaggi, che prendono spunto dalla tragedia per discutere della morte.

Jons: Che cosa vede? Questo vorrei sapere.

Cavaliere Block: Ormai non vede più.

Jons: Non avete risposto alla mia domanda. Chi veglia su di lei? Gli angeli, o Dio, o Satana oppure…oppure il Nulla? Il Nulla, ve lo dico io.

Cavaliere Block: No, no, non può essere!

Jons: Guardate i suoi occhi. La sua torpida coscienza si sta accorgendo del Nulla, del Nulla che ormai la sommerge.

Cavaliere Block: No, no!

Jons: E noi siamo qui, incapaci di fare qualcosa, perché vediamo ciò che vede lei, e il nostro terrore è uguale al suo e nessuno la aiuta…no, non posso guardarla!

“Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, Hans Jonas

La conciliabilità tra l’esistenza del male e quella di un Dio buono ed onnipotente ha sempre rappresentato una questione teologica di difficile soluzione. Il filosofo ebreo Hans Jonas, nella sua opera ‘Il concetto di Dio dopo Auschwitz’, si chiede in particolare come è possibile che Dio non sia intervenuto di fronte a quell’immane tragedia che coinvolse il suo popolo: Auschwitz.

“Pensavo di essere in debito verso quelle anime, di non poter negare loro qualcosa che somigliasse a una risposta all’invocazione, spentasi ormai da lungo tempo, che avevano rivolto a un Dio muto”

Questo è ciò che in poche parole sostiene Jonas: alla luce di un evento come Auschwitz, chi non voglia rinunciar sic et simpliciter a credere nell’esistenza di Dio, deve per forza rivederne il concetto. E qui l’argomentazione del filosofo ebreo si fa interessante, nonchè estremamente coraggiosa, a partire dal concetto di onnipotenza: Jonas lo ‘smonta’ piano piano sia a livello logico che a livello teologico.

Obiezione logica: onnipotenza significa potenza totale, ovvero non limitata da nulla, neppure dall’esistenza di ‘un altro da sè’. Infatti, per mantenere intatta la propria assolutezza, la potenza deve distruggere qualsiasi altra realtà che esiste al di fuori di sè, altrimenti non sarebbe assoluta. Ma una potenza senza oggetto è una potenza che nega sè stessa, perchè non ha nulla su cui agire. Dunque, affinchè essa possa agire, deve per forza esistere qualcos’altro, ma se questo qualcosa sussiste, essa non è onnipotente. Ne consegue l’infondatezza logica dell’onnipotenza. ‘Perchè vi sia potenza in generale, essa deve essere spartita’.

Obiezione teologica: tre qualità vengono solitamente attribuite a Dio: bontà assoluta, onnipotenza e comprensibilità. Jonas si chiede: quali di questi tre attributi sono veramente irrinunciabili? Sicuramente la bontà è inseparabile dal concetto di Dio. Pure la comprensibilità non può essere negata: il concetto di un Deus absconditus infattiè totalmente estraneo alla tradizione ebraica, in quanto Dio si è rivolto agli uomini attraverso i profeti, affinchè questi trasmettessero la sua parola nel linguaggio del tempo; Egli dunque non si è nascosto o chiuso in un impenetrabile mistero. Ne consegue che:

“Certamente Dio dovrebbe essere incomprensibile se con la bontà assoluta gli venisse attribuita anche l’onnipotenza. Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile”

Jonas dunque nega l’onnipotenza divina, e sancisce perentoriamente: ‘non intervenne [ad Auschwitz] non perchè non lo volle, ma perchè non fu in condizione di farlo’. In conclusione, questa è la tesi: nell’atto della creazione Dio avrebbe rinunciato a parte della sua potenza per concedere all’Uomo la libertà; infatti, in base al ragionamento logico sul concetto di potenza prima esposto, Dio non avrebbe potuto creare l’Uomo se non avesse rinunciato alla sua onnipotenza.

“Rinunciando alla sua inviolabilità il fondamento eterno consentì al mondo di essere. Ogni creatura è debitrice dell’esistenza a questo atto di autonegazione e ha ricevuto con essa tutto ciò che può ricevere dall’aldilà”

“Il Castello”, Franz Kafka

kafkaUn romanzo incompiuto, che nega al lettore di capire a pieno la fitta simbologia che lo domina, un libro chiaramente metaforico ma quasi impossibile da interpretare: questo è il Castello di Kafka.

La trama, in breve: l’agrimensore K. viene assunto da un misterioso Conte, che gli dà la possibilità di esercitare la sua professione in un villaggio, fino a prima sconosciuto a K.; questo villaggio ha la sua sede governativa e burocratica nell’inaccessibile Castello, abitato da funzionari, segretari e politici di vario tipo. La gente del villaggio è totalmente soggetta al Castello, nessuno ci è mai stato, ma tutti obbediscono alle sue ordinanze senza battere ciglio. Anche gli uomini del Castello sono inarrivabili, e agli occhi dei cittadini devono apparire come delle mezze divinità. K. arriva al villaggio, ma viene costantemente ostacolato nell’esercizio della sua professione dagli abitanti e soprattutto dalla lentezza dell’apparato burocratico del Castello. K. non può tollerare una simile situazione, e decide di incontrare chi di dovere per chiedere spiegazioni; la persona in questione è Klamm, uomo del Castello per il quale tutti gli abitanti del villaggio provano una smisurata riverenza. Nel frattempo K. seduce Frieda, l’amante di Klamm, che forse lo può portare più vicino a lui. Aspettando l’incontro chiarificatore, K. intraprende con Frieda il lavoro di bidello in una scuola elementare, ma poco dopo Frieda lo lascerà. Intanto K. ottiene un incontro con un segretario di Klamm: forse è l’occasione giusta per rimettere tutto a posto, e invece no: il segretario è stato mandato solo per comunicargli che Frieda deve tornare all’Albergo dei Signori, cioè nel luogo in cui si trovava prima che K. se ne innamorasse. Il romanzo si interrompe sostanzialmente qui.

Che cos’è il Castello? Che cosa rappresenta? Senza un finale è difficile dare una risposta a queste domande. Forse è meglio partire da quello che possiamo definire ‘sicuro’. Il protagonista ad esempio, l’agrimensore K.

K. veste alla perferzione il prototipo del protagonista kafkiano: solo contro tutti, immerso in un mondo e in una realtà che non gli appartengono e di cui non riesce a comprendere i meccanismi. K. è ragione ed etica allo stesso momento, ma nessuno lo capisce, anzi, tutti lo emarginano in nome di un concetto di giustizia chiaramente rovesciato rispetto a quello di K. Ma questo concetto di giustizia è lo stesso a cui si rifà inevitabilmente anche il lettore, che dunque non può fare a meno di immedesimarsi nel protagonista e di compatirlo.

Cosa vuole K. infine? Un semplice incontro chiarificatore con le autorità, null’altro. Del resto è stato chiamato in quel villaggio per esercitare la sua professione. Perchè tutti glielo impediscono? E soprattutto, perchè il Castello non muove un dito in suo favore o almeno non dimostra un minimo di comprensione per la sua situazione? Il povero K. si trova a combattere da solo contro un sistema governato da una burocrazia tanto illogica quanto lenta, e non trova nessun appoggio al villaggio; lì sono abituati al sistema, e non lo ritengono ingiusto. Per loro è così, punto. Il pazzo ai loro occhi è K., che pretende addirittura di parlare con Klamm, di mettersi in contatto col Castello. ‘Ma chi crede di essere?’ è come se si domandassero costantemente.

Franz_Kafka_from_National_Library_IsraelIl Castello è inarrivabile. Il Castello vede e domina tutto dall’alto. E’ evidente che se potesse K. lo salirebbe, ma non gli è concesso, è impensabile una cosa del genere. Qui si può partire con le intepretazioni. Il Castello è forse l’Infinito, l’Assoluto, Dio? Difficile da credere, perchè in comune con queste entità ha solo la caratteristica di non essere raggiungibile, con la naturale solennità che ne consegue. Il Castello è pensabile ma non conoscibile, come il noumeno di Kant. Ma probabilmente cercare somiglianze tra il Castello e idee di matrice filosofica o religiosa non ci conduce sulla strada giusta.

Il Castello non è solo l’irraggiungibile, ma anche l’assenza di comunicazione, il dispotismo, l’ingiustizia, la tirannia. Tutti obbediscono a quello che viene deciso lassù, nessuno si permette di discutere o di chiedere chiarimenti o addirittura di esprimere la propria idea. Non esiste democrazia al villaggio, ma quello che è più preoccupante è che non esiste nemmeno sete di democrazia. K. è il primo a portarne, ma tutti lo prendono per stupido o qualcosa del genere. Sotto questo punto di vista il Castello è il paradigma del dispotismo e della cieca obbedienza del popolo ignorante e inetto. Ma il Castello è anche assenza di logos, di parola, di discorso, perchè manca comunicazione. Il Castello comanda, il villaggio obbedisce. Questo non è dialogo. K. dunque finisce in un sistema anti-democratico, in cui gli uomini del potere disdegnano addirittura la vista di quelli che effetivamente sono i loro sudditi e in cui i ‘sudditi’ provano una forte complesso di inferiorità rispetto al Castello.

Il Castello potrebbe essere semplicemente il paradigma dello Stato degradato, dove il rapporto paritetico tra cittadini e detentori del potere è pura utopia e dove la democrazia è solo un miraggio. Questa è una lettura politica. Ma se ne potrebbe proporre anche una psicologica: il Castello è la chiusura e la solitudine dell’Uomo, che si arrocca in cima, in alto e non ascolta nulla e nessuno. Oppure la solitudine potrebbe essere quella di K., vittima di una società insensibile ai problemi del singolo e che punta solo ad andare avanti, senza farsi scrupolo di nessuno.