Storia e social network

Sintesi: I social network sono ormai diventati dei fondamentali attori nel mondo contemporaneo. La loro influenza, sempre più profonda, non riguarda soltanto il campo dell’informazione, ma si estende anche ad altre discipline, come la storia. Purtroppo, per loro natura, i social costituiscono un terreno fertile per complottismi e revisionismi vari. È dunque fondamentale, anche per gli storici di professione, non sottovalutare la questione e cercare di predisporre gli adeguati rimedi.

1. Premessa

Negli ultimi anni, si è discusso parecchio dell’impatto travolgente dei social media nel campo dell’informazione e della politica, soprattutto a seguito di alcune votazioni il cui esito è stato sensibilmente alterato dalla diffusione online di slogan e notizie false. Da fenomeno di costume apparentemente innocuo e frivolo, queste piattaforme virtuali si sono presto affermate quali rilevanti attori del mondo contemporaneo, come testimoniato dalla nota vicenda dell’ex presidente statunitense Donald Trump, il cui profilo Twitter è stato rimosso dopo il controverso assalto a Capitol Hill nel gennaio 2021. Le polemiche sorte sull’opportunità di una simile censura, così come l’idea stessa che un profilo Twitter potesse fungere da canale “insurrezionalista” in una nazione come gli Stati Uniti d’America, sono tutte prove eloquenti dell’importanza conquistata nel tempo da questi mezzi di comunicazione.
Con specifico riferimento al nostro Paese, i dati di un recentissimo rapporto Censis sull’informazione, datato 26 luglio 2023, hanno evidenziato che il 64,3 % degli italiani utilizza un mix di fonti informative, tradizionali e online, mentre il 19,2 %, ovvero poco meno di 10 milioni di nostri connazionali in valore assoluto, si affida esclusivamente alle fonti online. Sommando le due percentuali, si raggiunge l’83,5 % di italiani che usano il web per tenersi aggiornati su politica e attualità, contro un 9,9% (circa 5 milioni di persone) che si affida esclusivamente a televisione e riviste e un 6,7% che dichiara di non informarsi affatto. Numeri imponenti che, ovviamente, crescono di anno in anno.

2. L’impatto dei social sulla storia

Tuttavia, l’influenza di Twitter (ora X), Facebook e affini non si ferma certo alla politica o all’informazione sui fatti d’attualità, ma è ben più vasta, includendo diversi settori e discipline, con effetti spesso distorsivi. Uno degli ambiti disciplinari più colpiti è senza dubbio la storia. Miriadi di persone, infatti, in modo più o meno disinteressato, pubblicano e condividono sui social contenuti a tema storico. Negli ultimi quindici anni, la cosiddetta public history, ovvero l’attività di ricerca e divulgazione storica svolta fuori dall’ambito accademico, ha visto allargarsi notevolmente la propria platea, con rilevanti conseguenze sulla percezione di eventi e personaggi storici da parte del grande pubblico. Il potenziale raggiungimento di un elevato numero di persone, se a prima vista può apparire come un traguardo auspicabile per una materia spesso ritenuta appannaggio di pochi addetti, presta però anche il fianco a teorie complottiste e revisioniste, che trovano facile preda in migliaia, per non dire milioni, di soggetti sprovvisti dei necessari “anticorpi”.

A favorire questo rischio è la natura stessa dei social e il modo in cui essi veicolano i loro contenuti. Tanto per cominciare, questi spazi virtuali non sono adatti ad accogliere la complessità. I post pubblicati, infatti, per non perire dinanzi all’enorme concorrenza, devono essere accattivanti, semplici e immediati. Meglio ancora se suggestionano il destinatario, solleticandone la fantasia, o se confermano i suoi stereotipi e le sue idee. Con riferimento ai contenuti a carattere storico, tutto ciò si traduce nella divulgazione di verità superficiali, per non dire di veri e propri falsi, presentati senza l’adeguata contestualizzazione, e naturalmente, senza l’indicazione della fonte di riferimento, che spesso è travisata, se non inesistente o inventata di sana pianta. Si configura così una dimensione comunicativa sterile, ingannevole e aproblematica, dove proliferano falsi e discutibili interpretazioni del passato, il cui fine più ricorrente, anche se non dichiarato, è quello di avvalorare una visione politica a scapito di un’altra. La distorsione che si produce in questi casi è duplice: la prima, evidente, colpisce la veridicità di quanto rappresentato. La seconda riguarda i canoni di giudizio utilizzati, in quanto, il più delle volte, si pretende di giudicare la storia con i criteri del presente. È il cosiddetto “presentismo” (malattia tipica della nostra epoca), lo stesso che nel 2020, sulla scia del movimento Black Lives Matter, portò all’abbattimento di decine di statue tra Stati Uniti e Regno Unito. In generale, la superficialità dei contenuti e la loro natura prettamente funzionale rispetto a questa o quella idea politica minano la spazio per la riflessione e il dibattito, quando invece la cultura umanistica ha sempre chiesto tempi lenti e basi solide, necessari per la comprensione di un concetto o di un evento.

Si potrebbe obiettare che spetta al singolo individuo scegliere quali contenuti visualizzare e che figurarsi l’utente medio del web come uno sprovveduto in preda a fabbricatori di menzogne è tutto sommato ingeneroso. Le modalità di funzionamento dei social e alcune statistiche recentemente raccolte ci suggeriscono però i contorni di una realtà differente.

Con riferimento ai contenuti e alla loro visualizzazione, occorre specificare che sui social network un utente non seleziona sempre gli articoli e le immagini che gli appaiono sul dispositivo, anzi, la maggior parte di essi gli capitano davanti agli occhi oltre la sua volontà. Il caso più comune è quello dei post condivisi da un contatto. Facciamo un esempio: Tizio, ogni volta che accede al suo profilo facebook, viene bombardato di post del suo amico Caio sulla pretesa origine aliena delle piramidi di Giza e sulla cosiddetta “teoria degli antichi astronauti” (resa celebre dal film di fantascienza Stargate del 1994).

Altra casistica, non trascurabile, è quella dell’“algoritmo”, ovvero di quel meccanismo in forza del quale il social network suggerisce all’utente pagine, gruppi e notizie per affinità. In altri termini, sulla base delle ricerche e delle visualizzazioni più frequenti del navigatore, la piattaforma propone una serie di contenuti ulteriori che potrebbero interessarlo. Non è ben chiara la modalità di funzionamento dell’algoritmo, i cui esiti, talvolta, possono essere paradossali. Resta il fatto, comunque, che anche per questa via l’attenzione dell’utente è indirizzata su articoli e immagini da lui non scelti. Ad esempio: Tizio è un grande tifoso del Napoli, e Facebook, quindi, per associazione, comincia a suggerirgli post della pagina Identità partenopea, dove si parla di “invasione nordista del Sud” e di “genocidio del popolo meridionale” perpetrato dai Savoia.

Entrambi gli esempi delineati mettono in luce il rischio che il nostro utente “Tizio” – il quale, con tutta probabilità, non si sarebbe mai sognato di informarsi su certe questioni – cominci a credere a quanto legge sui social su quegli stessi argomenti, figurandosi invasioni aliene nella preistoria, di cui non esistono prove, o pretese pulizie etniche, in realtà mai avvenute.

Purtroppo non ho rinvenuto sondaggi sulle bufale in campo storico, in particolare su quanto esse siano frequenti e sul numero di soggetti sui quali possano fare presa. Si tratta, dopo tutto, di un terreno poco esplorato e che attende un maggior approfondimento. Dobbiamo pertanto accontentarci, per analogia, delle statistiche raccolte in materia di fake news, con la dovuta premessa che le percentuali che andremmo a esporre, pur non potendo essere trasposte tout court ai falsi storici che girano online, appaiono comunque utili in quanto offrono un ottimo indicatore e un interessante metro di paragone.
Ebbene, stando al già citato rapporto Censis del 26 luglio 2023, il 76,5% degli italiani ritiene che le fake news siano sempre più sofisticate e difficili da scoprire, il 20,2% crede di non avere le competenze necessarie per riconoscerle e il 61,1% pensa di averle solo in parte. Soltanto una minoranza del 18,7% ritiene con certezza di essere in grado di riconoscere immediatamente una notizia falsa.
Volendo semplificare al massimo, vi sono più di tre italiani su quattro che si dichiarano in difficoltà davanti a una notizia, o perché non hanno alcun mezzo per comprendere se si tratti una bufala o perché si ritengono almeno in parte sprovvisti delle conoscenze necessarie per stanare un falso.
In ambito storico, è ragionevole pensare che le percentuali siano simili, se non più alte, considerata la scarsa abitudine del cittadino medio con il metodo storico e le sue regole.

D’altro canto, le teorie revisioniste e complottiste sono molto affascinanti e possono catturare nelle loro maglie anche persone con un buon livello di cultura. Sia ben chiaro: non si vuole qui negare che la storia abbia conosciuto dei complotti, o affermare che il revisionismo sia necessariamente un male da rifuggire. È anzi vero il contrario: è innegabile che nei secoli ci sono state diverse congiure, così come è evidente che rivisitare un fatto storico, scoprendone nuovi particolari e fornendone interpretazioni alternative, è forse il succo stesso della storiografia, che altrimenti rimarrebbe fossilizzata nelle sue conclusioni e chiusa a ogni nuovo studio o ricerca. I fenomeni rispetto ai quali occorre stare in guardia sono una stortura, un’estremizzazione delle due tendenze sopra descritte.
Nel caso del complottismo, l’eccesso consiste nel partire sempre dal presupposto che la versione “ufficiale” sia falsa e costruita ad arte per ingannare le masse. “La storia è scritta dai vincitori” diventa un vero e proprio mantra, una sorta di credo che porta chi lo professa a negare a priori affidabilità alle tesi più affermate in seno alla comunità accademica, descritta come pigra o asservita al governante di turno. Tratti tipici del complottismo sono il vittimismo (i complottisti si ritengono infatti vittime dei cospiratori o quanto meno solidali con chi, in passato, ne avrebbe subito gli abusi) e l’immunità di fronte a qualsiasi prova fattuale contraria (la convinzione ideologica dei complottisti è talmente forte da non ammettere dimostrazioni di segno opposto e da non richiedere prove).
Il revisionismo, dal canto suo, presenta delle forti analogie con il complottismo. Potremmo dire che una tesi revisionista non è necessariamente complottista, ma il più delle volte una teoria del complotto è revisionista. Lo storico Luca Falsini ha individuato due caratteri ricorrenti di quella che lui definisce la “degenerazione revisionista”, distinguendola dal revisionismo “sano”, che nasce da ricerche originali e documentate: la prima è il continuo ripetersi di storie negate e rimosse, la seconda è il rifiuto pregiudiziale della complessità.
Tanto il complottismo, che pretende di spiegare i mali odierni con presunte congiure del passato, quanto la “degenerazione revisionista”, fatta di asserite verità taciute o nascoste, infestano i social network, e ciò sia per il loro alto grado di suggestione, sia per la loro immediatezza e semplicità, contro la complessità e la varietà della realtà storica.
È provato, inoltre, che le teorie revisioniste ottengono molti più clic di quelle “ufficiali”, e come sappiamo, sui social si vive di visualizzazioni e condivisioni. La verità storica finisce così, suo malgrado, per inchinarsi al clickbait, con buona pace delle fonti e di chi cerca di valorizzarle adeguatamente.

3. Opportunità e soluzioni

Considerato l’impatto dei social sulla visione storica generale, è evidente che il fenomeno nel suo complesso non può essere snobbato né tanto meno ignorato. In altri termini, per gli storici sarebbe un errore imperdonabile chiudersi nella proverbiale torre d’avorio e continuare ad operare come se il mondo non fosse cambiato rispetto a trent’anni fa. Un simile agire, infatti, significherebbe lasciare strada libera a bufale e menzogne, con il rischio che le stesse si facciano senso comune, divenendo impermeabili anche alle ricerche più serie. Le modalità tradizionali di pubblicazione e diffusione non devono essere abbandonate. I saggi storiografici, con le loro note, sono uno strumento imprescindibile per offrire una corretta informazione sugli eventi passati. A tali modalità, tuttavia, vanno necessariamente affiancati nuovi strumenti, che consentano una divulgazione efficace anche sul web e in particolare sui canali social. Come sottolinea lo studioso Francesco Filippi nel suo recente lavoro Guida semiseria per aspiranti storici social (Bollati Boringhieri, 2022), il nuovo storico deve saper stare online e in particolare “comprendere dove e come nascono i dibatti social, saperne misurare l’ampiezza e l’impatto, comprendere i modi e i luoghi di rilascio di una fonte online, saper comunicare con un linguaggio adeguato ricerche, interpretazioni, opinioni. A conclusioni simili giunge anche lo storico Luca Falsini, nel suo saggio La Storia contesa. L’uso politico del passato nell’Italia contemporanea (Donzelli Editore, 2020), laddove afferma che gli addetti ai lavori devono lavorare “sul linguaggio, sullo stile e sulla struttura dei testi”, imparando “l’uso di fonti meno consolidate , come la fotografia, le fonti orali e le immagini.

Chiaramente, tale compito non può essere demandato ai soli storici di professione, che costituiscono una sparuta minoranza della popolazione. Chiunque coltivi una sincera passione per la storia dovrebbe impegnarsi nel tentativo di abbattere narrazioni fuorvianti, basate esclusivamente sul sensazionalismo e sulla suggestione, opponendo ad esse, con modalità comunicative efficaci, i risultati di serie attività di ricerca, preoccupandosi anche della loro citazione. Lo stesso web, peraltro, può venire in soccorso, con i suoi immensi archivi digitali a portata di mouse e la moltitudine di articoli e ricerche facilmente consultabili. Occorre, dunque, che si instauri una sorta di fact checking anche in ambito storiografico, con la puntuale smentita online di falsi storici virali.

Una soluzione da portare avanti parallelamente consiste nella sensibilizzazione all’interno delle scuole. Durante l’insegnamento della storia, i ragazzi dovrebbe essere allertati contro la disinformazione e le teorie del complotto. Il metodo più efficace per limitare l’espandersi di teorie false consiste infatti nell’insegnare a riconoscerle. Dopo tutto, gli schemi narrativi e i meccanismi tipici di certe teorie tendono a ripetersi. Agire d’anticipo, in via preventiva, è dunque fondamentale per formare nuovi adulti più resistenti alle favole e alle falsità che abbondano sui social network.

Bibliografia e sitografia

– Censis, Disinformazione e fake news in Italia, rapporto del 26 luglio 2023
– Marco Brando, Parlare di storia nell’arena del web, 24 febbraio 2023
– Luca Falsini, La Storia contesa. L’uso politico del passato nell’Italia contemporanea, Donzelli Editore, Roma, 2020
– Francesco Filippi, Guida semiseria per aspiranti storici social, Bollati Boringhieri, Torino, 2022
– Daria Grimaldi, Social media e teorie del complotto: perché si diffondono e come vaccinarsi, 14 marzo 2021

“La Favilla” di Francesco Hermet (1850-1852)

La Favilla di Francesco Hermet fu uno dei tanti giornali fioriti nell’epoca risorgimentale e stroncati dalla censura austriaca, che vi vedeva (a ragione) un pericoloso veicolo di idee liberali e nazionali. La principale battaglia di questo periodico, sorto a Trieste nel 1850 per iniziativa di un giovane assicuratore di origini armene, fu la reintroduzione dell’italiano come lingua d’insegnamento nelle scuole del capoluogo giuliano. All’epoca, infatti, nelle scuole di Trieste, tutti gli insegnamenti venivano impartiti in lingua tedesca.
L’articolo che segue è stato recentemente pubblicato a mio nome sui
Quaderni del Risorgimento (Serie n. 11), rivista periodica del Comitato di Treviso dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano.

1. La pressione germanizzatrice su Trieste tra Settecento e Ottocento

Alla metà dell’Ottocento Trieste ha ormai conquistato quella posizione di rilievo che avrebbe rivestito anche nei decenni successivi quale sbocco commerciale sul Mediterraneo di larga parte dell’Europa centrale. Dopo la stasi del periodo napoleonico sono sorti i grandi complessi economici: le Assicurazioni Generali nel 1831, il Lloyd Austriaco nel 1833 e la RAS (Riunione Adriatica di Sicurtà) nel 1838. In questi anni la città giuliana è attraversata da un notevole cosmopolitismo, dove la prevalente italianità funge da elemento catalizzatore e unificatore delle varie nazionalità presenti1. Nondimeno, lo Stato asburgico mette in atto delle politiche che sembrano puntare a una progressiva erosione della dimensione italiana di Trieste, allo scopo di avvicinare sempre più l’antico comune al polo viennese. Emblematico al riguardo appare l’inserimento della città nella Confederazione germanica, un’associazione di Stati indipendenti di lingua e cultura tedesca alla quale ha aderito anche l’impero austriaco. Non tutti i territori asburgici sono compresi nella Confederazione: oltre all’Ungheria, ne sono esclusi il vecchio Stato da Mar veneziano (Istria veneta e Dalmazia), la Croazia, la Transilvania ed altre regioni storicamente estranee alla Germania. In verità Trieste accoglie solamente una piccola minoranza germanofona, composta per lo più da funzionari imperiali, da alcuni commercianti e dalle loro famiglie. La ragione della sua appartenenza alla federazione non è dunque di carattere nazionale. Il trattato istitutivo della Confederazione prevede che vi siano inglobate solo le realtà territoriali un tempo appartenute all’impero tedesco. Nemmeno questa condizione storica può però considerarsi realizzata per Trieste. Pertanto, quando l’Austria nell’aprile del 1818 deve motivare l’inclusione della città nella nuova compagine sovranazionale, si limita ad affermare la necessità di estendere la linea di difesa della Confederazione oltre le Alpi2. Una motivazione che per la verità suona come un semplice pretesto. Il reale intento, infatti, è quello di legare ulteriormente il capoluogo giuliano sia all’impero che al mondo germanico, i quali consideravano Trieste una loro legittima e irrinunciabile propaggine3.

Un simile disegno sembrerebbe confermato da alcuni tentativi di germanizzazione della città, che pur non giungendo mai a una vera e propria snazionalizzazione rappresentarono però un’evidente forzatura in senso centralista. Già nel 1786 l’imperatore Giuseppe II aveva decretato l’uso esclusivo del tedesco nei tribunali di Trieste e del Friuli orientale a partire dal 1789. Il decreto non ebbe mai concreta applicazione, dapprima per ragioni di oggettiva impossibilità (giudici e avvocati parlavano tutti l’italiano e pochi conoscevano il tedesco) e in seguito, dopo il 1791, per la morte dell’imperatore: il suo successore Leopoldo II fu convinto dal comune ad abolire il decreto4.

Altro caso, ben più scottante e destinato a trascinarsi per lunga parte del XIX secolo, fu quello della lingua dell’insegnamento nelle scuole. Nel 1776 il governo di Vienna soppresse la secolare scuola del comune gestita dai gesuiti e istituì la prima scuola elementare pubblica, ordinando l’insegnamento in tedesco. Durante la dominazione napoleonica fu introdotto in città il liceo italiano, il quale però venne abolito al ritorno dell’Austria in favore di un ginnasio in lingua tedesca. Nulla mutò nei successivi decenni, nonostante le petizioni avanzate dalla rappresentanza politica della città – l’i.r. Magistrato politico economico – nel 1824, 1825, 1833 e 1834. Quando nel settembre del 1848 la commissione municipale triestina, composta da membri di diverse nazionalità, chiese che la lingua d’istruzione nelle scuole pubbliche elementari e nel ginnasio fosse quella italiana, in quanto “lingua naturale del paese, da tutti intesa e generalmente parlata”, la risposta del governo fu che Trieste non era città italiana, ma “mista”. Il dispaccio ministeriale aggiungeva poi, non senza ipocrisia, che una volta date le scuole agli italiani si sarebbe dovuto darle anche agli altri popoli, “perché altrimenti si sarebbe fatta un’opera di forzata italianizzazione”. Infine, concludeva il ministero, chi l’avesse desiderato avrebbe sempre potuto iscrivere i propri figli al ginnasio di Capodistria, dove vigeva la didattica in lingua italiana5.

Fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento, l’unica scuola superiore di Trieste ad impartire i propri insegnamenti in italiano era l’Accademia di Commercio e Nautica, i cui fondatori, all’evidenza, avevano compreso l’importanza vitale che la lingua di Dante rivestiva anche nel settore dell’economia e dei commerci cittadini6.

La conseguenza della politica intrapresa in materia dall’Austria fu quella di incentivare il ricorso ad insegnanti privati o l’iscrizione presso scuole di città limitrofe, come la già citata Capodistria.

In questo scenario, un giornale di Trieste intraprese a suo danno una coraggiosa lotta di stampa per ripristinare l’italiano come lingua d’insegnamento nelle scuole della città: alludiamo alla Favilla di Francesco Hermet, patriota e futuro capo dell’irredentismo triestino. Questo audace periodico, sorto poco dopo le agitazioni del biennio rivoluzionario 1848-49 e successivamente soppresso dalla censura nel 1852, fu una riedizione dell’omonimo giornale fondato nel 1836 ad opera di Antonio Madonizza e stampato fino al 1846. Vediamo brevemente quale fu la vicenda di questa prima edizione e come ispirò Hermet nella sua opera.

2. La prima edizione della Favilla (1836-1846)

Nata come iniziativa individuale di un aspirante avvocato istriano, La Favilla costituisce una delle principali imprese letterarie dell’Ottocento triestino7. Nel 1836 il giovane Antonio Madonizza8, praticante nello studio di Domenico Rossetti9, ottiene il permesso da parte dell’imperial-regio governo del Litorale di pubblicare un giornale letterario. Gli iniziali sospetti del direttore della polizia Call, che aveva etichettato Madonizza come “un giovane d’animo esaltato e facilmente eccitabile”, sono superati dal parere favorevole del governatore Weingarten, che acconsente alla pubblicazione del periodico10. A Trieste non esiste ancora un giornale di questo tipo, per cui si prende spunto da realtà vicine. La Favilla, che esce per la prima volta il 31 luglio 1836 con il motto dantesco “Poca favilla, gran fiamma seconda11, affida il suo articolo di presentazione al veneziano Luigi Carrer, direttore del Gondoliere, il quale riempie la prima pagina di metafore sulla “fiamma” che la rivista avrebbe potuto generare nei suoi lettori. Nonostante la scrupolosa censura di Call, gli articoli conservano traccia dell’influsso liberale e romantico dell’epoca. L’abbandono del fondatore Madonizza, nel frattempo sposatosi e tornato nella sua Capodistria, non sancisce la fine dell’impresa, che passa anzi in mani altrettanto giovani e capaci. La penna viene dapprima ceduta a Giovanni Orlandini, che esorta alla collaborazione Antonio Somma, Antonio Gazzoletti e soprattutto Francesco Dall’Ongaro12, il principale ispiratore del giornale nel post-Madonizza. In questa seconda fase il periodico cresce di importanza ed aumenta la propria diffusione, anche per merito della direzione di Pacifico Valussi, che subentra a Giovanni Orlandini in qualità di editore.

I favillatori non sono tutti triestini, anzi, ma condividono passioni, ideali e un saldo rapporto di amicizia. Usano trovarsi nelle osterie dell’antico centro storico,in un clima di festa, dove fra una partita e l’altra si decide l’impaginazione del giornale13. La polizia triestina dedica diversi rapporti alla loro attività. In una nota del 1839, ad esempio, si legge che il giornale avrebbe alimentato le simpatie per l’Italia fra le classi più benestanti di Trieste, fornendo loro un mezzo per manifestare le proprie idee liberali. Altrove, i favillatori sono accusati di seguire un preoccupante indirizzo, e più precisamente di diffondere lo spirito “di un malintenzionato liberalismo e di una falsa nazionalità italiana14. Nonostante tutto, la pubblicazione è consentita dalla presenza di governatori più benevoli della polizia triestina (prima Weingarten e poi il conte Stadion).

La fine arriva il 31 dicembre 1846, dopo la bellezza di undici annate (una rarità per l’epoca). Mancano i capitali per proseguire e a darne l’annuncio è Francesco Dall’Ongaro, in un articolo dal tono solenne e commosso. Il giornale accusato di italofilia e di eccessi liberali termina così la sua corsa, lasciando tuttavia un segno nel sentimento nazionale della città e nella sua storia letteraria15.

3. La Favilla di Francesco Hermet (1850-1852)

Tra la prima edizione della Favilla e quella di Hermet corrono solamente quattro anni, ma nel frattempo molto è cambiato. La tempesta quarantottesca è giunta anche a Trieste, sebbene con forza decisamente attutita rispetto a centri come Milano e Venezia. Nel capoluogo giuliano infatti non si registrano colpi di mano o insurrezioni, ma vi è indubbiamente del movimento, a partire dal mondo della carta stampata. Una volta promulgata la costituzione a Vienna, Trieste assiste a un gran fiorire di giornali: tra il 1848 e il 1849 vedono la luce una quarantina di fogli diversi. Ben pochi tuttavia sopravvivono al giro di vite imposto dal ritorno della censura. Dal 1850 al 1859 solo due giornali escono regolarmente in città senza incontrare ostacoli: l’Osservatore Triestino, che per non sparire dalla circolazione dedica le proprie colonne esclusivamente ai commerci, ai trasporti e alle assicurazioni, e Il Diavoletto, un periodico umoristico di stampo filoasburgico che aveva sempre combattuto per far trionfare la reazione austriaca16. A ben vedere, rispetto ai tempi precedenti il 1848, la legislazione austriaca in tema di censura non si è fatta molto più stringente. Tuttavia, da un lato le autorità si sono irrigidite, ricorrendo a tutti gli strumenti in loro possesso per attuare un controllo severo e capillare della stampa; dall’altro lato, le correnti liberate dal Quarantotto hanno irrobustito la coscienza liberale e nazionale di molti giovani, i quali, fra le strettoie della censura, si adoperano in tutti i modi possibili per esprimere i propri ideali, nella speranza di risvegliare ed influenzare l’opinione pubblica.

3.1 Francesco Hermet

Francesco Hermet conosce bene il giornalismo per essersi formato proprio nella Favilla di Madonizza e Dall’Ongaro. Nato a Vienna il 30 novembre 1811 da una famiglia armeno-cattolica di ceto benestante, discendente da ugonotti francesi emigrati in Persia e poi tornati in Europa, Hermet mostra fin da giovane una vivace passione per le lettere e la politica, nonostante la necessità lo porti a lavorare prima come corrispondente per le Assicurazioni Generali e poi come agente di commercio. In una memoria stesa in tarda età, definirà gli appuntamenti serali con i favillatori come le ore più belle e gradite della sua vita17. La miccia dei suoi ideali politici era stata accesa qualche anno prima dai moti del 1830 e da un singolare incontro avvenuto l’anno successivo con alcuni prigionieri politici polacchi, i quali si trovavano a Trieste in attesa di essere trasferiti in America.

Il giovane patriota balza agli onori della cronaca nel 1848, quando Trieste deve eleggere due deputati da inviare alla Dieta di Francoforte, organo assembleare della Confederazione germanica. Per ragioni di censo, egli si trova compreso tra i cittadini aventi diritto al voto. I candidati del governo, Karl Ludwig von Bruck (fondatore del Lloyd austriaco) e Friedrich Moritz von Burger (futuro governatore del Litorale), passerebbero facilmente se non fosse per la strenua opposizione di Hermet, che chiede con fermezza l’elezione di rappresentanti triestini in luogo dei due austriaci proposti. Il suo intervento sortisce l’effetto di sospendere la seduta e di rinviarla al giorno successivo al Teatro Corti (di cui è proprietario). I candidati di Vienna passano ugualmente, ma Hermet riesce nel suo duplice intento di protestare contro l’aggregazione di Trieste alla Confederazione germanica e di suscitare “un po’ di risveglio nella vita pubblica”. Cercherà di dare un seguito a questi episodi, fondando un’associazione di stampo politico, la Società dei Triestini, la quale raccoglie adesioni importanti, ma è costretta a chiudere i battenti per l’incalzare della reazione. Hermet si determina dunque a dare voce ai propri ideali in altro modo, tornando al giornalismo. Nasce così il progetto di riportare in vita il periodico in cui egli stesso era cresciuto e che tanto aveva significato per il liberalismo triestino.

3.2 La prima annata (1850): la questione della lingua e la censura della polizia

L’11 settembre 1850 esce il primo numero della nuova Favilla, con il sottotitolo “Giornale di cose patrie e varietà” e il consueto motto “Poca favilla, gran fiamma seconda”. Ne è redattore il tipografo vicentino Camillo Lustro, secondo l’usanza invalsa all’epoca di non esporre direttamente il fondatore del periodico. Il giornale ricorda il suo predecessore anche nella foggia: due colonne per pagina, nessuna illustrazione. Si tratta di un bisettimanale di quattro facciate, in uscita il mercoledì e la domenica e che fin dal suo debutto annuncia espressamente di volersi occupare di vicende cittadine (“cose patrie”) e varietà (in primis teatro e letteratura). Più precisamente, la nuova Favilla si propone di seguire le riunioni del consiglio comunale, l’amministrazione della giustizia nei tribunali triestini e, ovviamente, le lettere, “tenendo desto l’amore per la lingua e la letteratura nazionale”.

Di particolare interesse appare la spiegazione del nome del giornale. Invece di un semplice richiamo alla precedente edizione della Favilla, la prima pagina del nuovo periodico di Hermet pone l’accento sulla necessità di alimentare e ravvivare presso la popolazione la “scintilla” dell’amore per il vero e la conoscenza. “Questo titolo, di modesto bensì, ma pur vastissimo significato, ci permetterà d’occuparci della educazione morale e civile del popolo, della sua istruzione e del miglioramento delle sue condizioni, delle pubbliche istituzioni esistenti tra noi, delle belle lettere, delle belle arti, dei pubblici trattenimenti”. Per quanto nello stesso articolo di presentazione il giornale rifugga espressamente dalla politica, si capisce che quello della Favilla non è un programma puramente culturale. Invero, i cenni alle lettere e alle arti sembrano un escamotage atto ad evitare eccessivi sospetti da parte delle autorità austriache, le quali nutrono una forte diffidenza verso ogni nuova iniziativa editoriale, tendendo a scorgevi un fine antigovernativo o addirittura sovversivo. Nel caso della rinata Favilla, il dichiarato interesse per l’incivilimento del popolo e la sua istruzione, come si vedrà a breve, annuncia un diffuso impegno sul versante della difesa dei diritti nazionali.

Nel 1850” racconta Francesco Hermet “fondai un foglio politico che usciva due volte per settimana, ed era intitolato La Favilla. Nei primi tempi vi collaboravano egregie persone tanto di qui quanto del Veneto, dell’Istria e del Goriziano. Queste però dovettero ben presto ritirarsi dinnanzi ai rigori della reazione, che incalzava sempre più…”. Per una migliore comprensione degli eventi, occorre considerare il periodo storico in cui Hermet tentava la sua avventura nel giornalismo, guardando sia alla situazione generale dell’impero austriaco che a quella triestina.

Quanto all’Austria, il decennio intercorrente tra la fine della rivoluzione del 1848 e il 1859-60 è contraddistinto da una politica di tipo neo-assolutista. L’esigenza di mantenere l’integrità territoriale dell’impero, seriamente messa a rischio dalle rivolte italiane e ungheresi, e la parallela necessità di fronteggiare richieste politiche sempre più pressanti, spingono il giovane imperatore Francesco Giuseppe ad optare per un sistema di governo che accentri maggiormente i poteri nelle sue mani. Si torna dunque – o meglio, si regredisce – alla monarchia assoluta, cancellando gran parte delle libertà precedentemente riconosciute dalla costituzione del 1848, a cominciare dalla stampa, la quale diventa oggetto di restrizioni e controlli sempre più serrati ad opera della polizia.

Quanto a Trieste, la città gode di misure più favorevoli rispetti ai principali centri del limitrofo Lombardo-Veneto, ancora soggetto allo stato d’assedio. Nel capoluogo giuliano viene mantenuto provvisoriamente il comando supremo della marina, dopo che gli eventi del 1848 avevano destituito Venezia dalla sua posizione centrale nella Kriegsmarine asburgica. Al contempo, come contropartita per il tepore mostrato di fronte alle sirene liberali degli anni precedenti, Trieste viene dotata di un nuovo statuto che ricostituisce, con certe limitazioni, la vecchia autonomia municipale18. Al consiglio comunale viene dato il carattere quasi parlamentare di dieta provinciale e nel settembre del 1850 si tengono le elezioni dei suoi membri. La rinata Favilla fa la sua comparsa proprio in questi giorni. Il secondo numero di domenica 15 settembre, infatti, si trova a commentare gli esiti della recente tornata elettorale, dove i due schieramenti, liberale e filogovernativo, si sono pressoché equivalsi, con una leggera prevalenza del secondo sul primo. Bastano poche righe dell’articolo che campeggia in prima pagina per capire che La Favilla sarà essenzialmente un giornale d’opposizione, che vigilerà sull’attività del nuovo consiglio a difesa del “sentimento nazionale” della città, “negletto, ottuso e imbastardito” dalle precedenti amministrazioni.

Nel quarto numero del 22 settembre viene affrontata per la prima volta la questione della lingua d’insegnamento nel ginnasio, con l’augurio che la neoeletta rappresentanza municipale decida di battersi per la causa. Nel sesto numero del 29 settembre si riporta la notizia dell’aiuto economico offerto dai triestini alle vittime di una recente alluvione nel bresciano, un gesto interpretato non solo come una manifestazione di pietà, ma anche come espressione di un sentimento “che porta irresistibilmente a fraternizzare coloro che hanno comune il cielo, il linguaggio, i costumi e la storia… Questa occasione dissuada una volta quei tali i quali vorrebbero tuttavia render per sempre straniera Trieste all’Italia”. Nel settimo numero del 2 ottobre viene apertamente contestata la decisione delle autorità di proibire la distribuzione in città della Concordia di Torino, giornale piemontese con cui La Favilla aveva esercitato il cambio. In queste prime uscite, pur mantenendo un registro prudente, Hermet non pare curarsi molto delle opinioni di chi potrebbe metterlo a tacere. Il che, come vedremo, non rimarrà senza conseguenze.

L’articolo d’apertura del 13 ottobre, intitolato Polemica, è una delle più appassionate difese della nazionalità di Trieste che si rinvengono nel periodico. In questo pezzo viene aspramente criticato un corrispondente del Lloyd di Vienna, il quale, nell’affrontare la questione della lingua d’insegnamento nelle scuole pubbliche triestine, aveva negato con decisione l’italianità della città, definendo quest’ultima un “microcosmo” di tutta l’Austria e bollando come puramente accidentale e convenzionale il fatto che la lingua italiana fosse la più diffusa in città.

Ecco la replica: “No, signor corrispondente, e voi tutti o signori del Lloyd di Vienna o di Trieste, noi cinquantamila triestini non parliamo l’italiano né per accidente né per convenzione; lo parliamo perché è cosa nostra, propriamente nostra… E questo preziosissimo tesoro della nostra nazionalità e della lingua nostra noi lo teniam caro e caro lo terremo e ci stringeremo ad esso e lo porteremo in trionfo e non lo abbandoneremo giammai, a dispetto della tricolore germanica che un dì si volle inalberare sul nostro castello, a dispetto del bastardo sistema d’istruzione che si vorrebbe tuttora conservato…”.

Significativamente, nello stesso numero il periodico è costretto a pubblicare una nota della polizia, dove si dà atto di un’indagine avviata presso la Procura di Stato nei confronti della redazione del giornale per un’asserita violazione della normativa in materia di stampa. Oggetto della contestazione è un articolo della precedente settimana, dove viene messa in dubbio la correttezza dell’operato della polizia nella gestione dell’ordine pubblico.

Questo non impedisce tuttavia alla Favilla di mantenere la sua impostazione polemica e patriottica, specialmente sulla questione della lingua. Nuovo bersaglio, nel numero 15 del 30 ottobre, è la germanizzazione della marina austriaca, a seguito del trasferimento del comando supremo da Venezia a Trieste. La rivoluzione veneziana del biennio 1848-49 costrinse l’Austria a “de-venetizzare” la marina, fino ad allora ufficialmente nota come “austro-veneta” e da quel momento in avanti chiamata semplicemente “austriaca”. Il cambiamento, tuttavia, non fu solo nel nome: negli equipaggi, infatti, il tedesco venne elevato al rango di lingua ufficiale, al punto tale che, secondo una corrispondenza dell’Osservatore triestino del 1850, dai bastimenti non si udiva più una parola d’italiano. La Favilla trae spunto da questa testimonianza – vera o falsa che fosse – per affermare che germanizzare la marina equivaleva a snaturarla: “L’Austria … se non venga un nuovo cataclisma universale a cambiar la sua forma topografica, non può aver altra marina che italiana, perché non ha altro mare che italiano, non ha altre coste che italiane, non ha altri naviganti che italiani, non ha altri cantieri, altri arsenali, altri porti che italiani”.

Il 3 novembre il periodico di Hermet inserisce in prima pagina una poesia dal titolo La popolana triestina, i cui versi, leggeri ma pungenti, ribadiscono lo stretto legame tra la città e la lingua italiana, esecrando ogni avverso tentativo di snazionalizzazione. Eccone il testo:

Giovinetta, che lingua sai parlare?”

Son di Trieste e parlo l’italiana –

Ma se ti fanno slava diventare

O ti vorran della nazion germana,

A che ti gioverà, fanciulla bella,

La tua nativa italica favella?”

Mia madre m’insegnò poiché son nata

A dirle madre ed a pregare Iddio

In questa lingua che ho sempre parlata

Alle amiche, ai parenti e all’amor mio;

E se ignoro la slava e la germana,

Se parlo l’italian, sono italiana.

Non credo così crudi i forestieri

Ch’hanno fra noi ricetto e che ospitiamo

Da volerci rapir lingua e pensieri

E l’amore di tutto ciò che amiamo;

Poichè è retaggio che da Dio sol viene

La lingua e la nazion cui s’appartiene.

Dal tempio di San Giusto ai lazzaretti,

I canti dei fanciulli che ascoltiamo,

Le preghiere dei nostri poveretti,

Le lapidi che ai morti noi ponghiamo,

Non palesa abbastanza ad ogni estrano

Che il popol a Trieste è italiano?

Che se una parte degli abitatori

Di queste a noi limitrofe campagne,

Se poveri ed ignari agricoltori

Parlan strane favelle e discompagne;

Ha Trieste e l’adriatica riviera

Itala lingua e civiltà primiera

Nello stesso numero, il giornale risponde alle critiche di chi lo definisce antitedesco, replicando di non avere in odio la Germania, ma di lottare “contro l’invasione e il predominio dell’elemento germanico in terra che germanica non è”.

Il tema caldo resta dunque quello della lingua e dell’identità nazionale, un binomio inscindibile per la redazione della Favilla, che dopo alcune pubblicazioni torna a battere sulla questione dell’insegnamento. Nell’articolo Istruzione pubblica del numero 18 si evidenzia infatti l’assurdità di costringere i ragazzi triestini a dei corsi pre-universitari in tedesco, quando quelli universitari (presso l’ateneo di Padova) si svolgono in lingua italiana. Analoghi concetti vengono espressi nel numero 23 del 27 novembre, dove si proclama a chiare lettere: “Noi domandiamo che a Trieste la lingua d’insegnamento in tutte le pubbliche scuole sia esclusivamente la italiana, unendovi però lo studio obbligatorio della lingua tedesca”. Il 1° dicembre si osa ancora di più: in prima pagina viene citata una voce secondo la quale il governo di Vienna avrebbe comunicato alla Luogotenenza del Litorale la volontà di mantenere il tedesco come lingua d’insegnamento del ginnasio. Il pezzo, dal titolo Una cattiva nuova!, è un latente attacco al governo austriaco, nonché un invito alla popolazione a protestare contro quello che viene definito un “danno” alla cittadinanza triestina. Per la Procura di Trieste è davvero troppo. Il giorno successivo viene ordinata la sospensione del giornale, colpevole di aver espresso considerazioni di natura politica quando si sarebbe dovuto limitare a trattare di “cose patrie e varietà”. Alla redazione è imposto il pagamento di una salatissima cauzione, che all’epoca doveva essere versata da tutti i giornali che avessero voluto affrontare argomenti politici. Hermet e i suoi soci si trovano pertanto a un bivio: pagare la somma richiesta, tenendo in vita la rivista, o sparire dal mondo della carta stampata dopo nemmeno tre mesi di pubblicazione.

3.3 La seconda e la terza annata (1851-52). I processi penali a Francesco Hermet e collaboratori e la chiusura del giornale

Occorrono alcune settimane per raccogliere l’importo della cauzione, ma alla fine, anche grazie al generoso aiuto di molti abbonati, l’obiettivo viene raggiunto. Il giornale torna dunque in libreria19 il 9 febbraio 1851, con un formato più grande e un nuovo sottotitolo: da “Giornale di cose patrie e varietà” si passa infatti a “Giornale di politica e cose patrie20. Almeno inizialmente, la redazione decide di perseverare nelle proprie battaglie, insistendo per l’istituzione di un ginnasio italiano in città. A tale argomento, specialmente nei primi mesi del 1851, vengono dedicati diversi articoli dal tono risoluto e accorato. Il pagamento della cauzione, tuttavia, non è un lasciapassare per la piena libertà d’espressione, che di fatto, in regime di censura, non può esistere. Paradossalmente, nonostante il nuovo status di giornale politico, La Favilla è costretta ad osservare una linea editoriale più accorta. Dopo le ammonizioni e la sospensione dell’anno precedente, infatti, la polizia triestina alza inevitabilmente il livello di guardia. E non è l’unica a farlo: il maresciallo Radetzky arriva addirittura a vietare la distribuzione del giornale nel Regno Lombardo-Veneto21. A preoccupare il vecchio comandante, probabilmente, non era tanto la diffusione delle idee patriottiche e liberali agitate dalla Favilla, quanto il fatto che simili idee circolassero pure a Trieste: i sudditi veneti e lombardi avrebbero potuto trarne il convincimento che la città giuliana non fosse poi così fedele alla corona, contrariamente a quella che allora era un’opinione diffusa, specie negli ambienti conservatori e filoasburgici.

In termini di vendite, il veto alla diffusione nel Lombardo-Veneto rappresenta un freno non indifferente all’azione del foglio, il quale cerca di tenersi in piedi finché i fondi e le circostanze lo permettono. I grattacapi, tuttavia, non si fanno attendere. Nel novembre 1851, ad esempio, il giornale riceve un’ammonizione scritta dal Luogotenente del Litorale Franz Wimpffen. Il tenore delle contestazioni rivolte ad Hermet e a suoi è decisamente indicativo del clima di oppressione vigente all’epoca. La redazione della Favilla, infatti, viene richiamata per “la tendenza perseverante” a destare “malcontento col presente ordine delle cose”, “infondate inquietudini” e “diffidenza nelle misure del governo22. L’anno della stretta contro il giornale è però il 1852, quando la Procura di Trieste intenta un processo politico a Francesco Hermet con l’accusa di ingiurie verso il sovrano. L’incriminazione è dovuta a un articolo inserito nel numero 122 del 21 gennaio, tratto a sua volta da un pezzo pubblicato sul Corriere Italiano, giornale in lingua italiana che si stampava a Vienna con sostegno e finanziamento governativi. Il passaggio contestato è la notizia di un discorso pronunciato a New York dal patriota ungherese Kossuth, il quale si era riferito genericamente ai sovrani europei con l’appellativo infamante di “despoti”. La redazione della Favilla viene pertanto accusata di aver ingiuriato l’imperatore d’Austria, offendendo il rispetto a lui dovuto. Dapprima viene incolpato e convocato il nuovo redattore responsabile del foglio, Giovanni Battista Pagani, il quale però se la cava indicando Francesco Hermet quale autore dell’articolo. Nessun avvocato accetta la difesa di Hermet, probabilmente per paura. Davanti al magistrato, il patriota triestino sostiene la sua innocenza in modo singolare, con argomentazioni argute e osservazioni sarcastiche, come egli stesso racconta nelle proprie memorie23: “Il giudice istruttore era un nostro triestino il consigliere Ravasini, degno galantuomo. I miei mezzi di difesa consistevano nel foglio originale del Corriere Italiano e nel vocabolario della lingua italiana del Bazzarini. Dettai oltre a dieci pagine di roba facendo ridere a crepapelle il mio giudice che mi diceva: “la diga, la diga, la vada avanti, bello, bello!”. Erano canzonature sulla circostanza abbastanza bizzarra di un giornale incriminato che il Governo pagava e sul significato del vocabolo “despota” che il Bazzarini decifrava: “dignità dell’impero greco”, sul titolo assunto e dato comunemente dallo czar di autocrate di tutte le Russie, su quello prediletto del Sultano, Padiscià, cioè “Re dei Re”, e finalmente ciò che in senso giuridico riuscì decisivo, feci cenno della patente sovrana del dicembre 1851, con cui l’imperatore aveva dichiarato di riassumere in sé tutti i poteri dello Stato. L’esito di questa difesa fatta a modo mio fu soddisfacentissimo. La procura desistette dal processo e nel decreto di desistenza si pregava la redazione di non far cenno dell’avvenimento sul giornale24.

La vicenda giudiziaria si conclude favorevolmente ad Hermet, ma rappresenta un campanello d’allarme che non può essere ignorato, al pari delle nuove ammonizioni che giungono dalla Luogotenenza e, soprattutto, delle pene che vengono invece comminate il 17 agosto 1852 a carico di due collaboratori del giornale, Camillo Lustro e Filippo Lodoletti. Con il riconoscimento di violazioni della legge sulla stampa, il primo è condannato a otto giorni di arresto e a una multa di venti fiorini, il secondo a dieci giorni di arresto, inaspriti da due digiuni. La rivista, dopo aver assunto un profilo più grigio e rinunciatario, è pertanto costretta a chiudere, come ricorda lo stesso Hermet: “Il giornale si ridusse ad una semplice cronaca, ma anche questa non garbava per quanto fosse innocua, ed avute le tre ammonizioni che in quel tempo erano richieste per far morire i giornali di morte violenta, esso soggiacque all’inevitabile suo destino…25.

Il liberalismo triestino smette dunque di avere una voce nel mondo della stampa ed invano, negli anni immediatamente successivi, avrebbe cercato di recuperarla. Tutti i tentativi in tal senso vengono soffocati dalla polizia, dalla Procura di Stato e dalla Luogotenenza, le quali agiscono pressappoco alla stessa maniera: contestazioni formali, interrogatori, perquisizioni domiciliari, processi politici, fin a quando il redattore del giornale politicamente scomodo non desiste o addirittura non fugge dalla città per evitare arresti o maggiori complicazioni, come accaduto nel 1859 a Demetrio Livaditi e Leone Fortis, responsabili del giornale satirico-umoristico La Ciarla26.

Dal canto suo, Francesco Hermet preferisce uscire dai riflettori per qualche anno, tornando ad occuparsi quasi esclusivamente della sua professione di assicuratore. Non si tratta tuttavia di un ritiro dalla vita pubblica. Nel 1861 viene infatti eletto in consiglio comunale, ovvero nello stesso organo politico che un decennio prima si era proposto di seguire scrupolosamente dalle colonne del suo periodico. Nei panni di consigliere, prosegue la sua campagna per l’introduzione dell’italiano come lingua d’insegnamento e, in seguito, per l’apertura di un’università italiana a Trieste. Ma è soltanto una parte dell’impegno civico da lui profuso: a mero titolo esemplificativo, citiamo la sua elezione nel 1869 a deputato del Consiglio dell’Impero e la fondazione, sempre sul finire degli anni Sessanta, di un nuovo giornale di stampo liberale e nazionale, Il Cittadino.

Francesco Hermet muore a Trieste il 16 febbraio 1883.

In tarda età, ricordando il processo subito ai tempi della Favilla, poteva affermare con soddisfazione e senso di rivincita: “Nello stadio del processo inquisitorio ebbi campo d’ispezionare la cosidetta fedina politica, che mi concerneva. Dopo il solito “incensurato” questa letteralmente suonava: “Fanatico partigiano della sognata indipendenza italiana”. Nè io era un fanatico né l’indipendenza italiana era un sogno. Ma ciò, che era vero in quell’epoca e lo è anche adesso, è che io, con tutte le forze dell’animo mio desiderava si realizzassero le aspirazioni degli italiani nutrite da 10 secoli. E ciò è avvenuto.27

Giovanni Pistolato

NOTE

1 Per un’introduzione sul clima sociale, politico ed economico della Trieste risorgimentale, si consigliano i seguenti testi: Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino, 1982, pag. 18 e ss.; a cura di Grazia Tatò, Trieste, Gorizia e l’Unità d’Italia, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, Stella Arti Grafiche, Trieste, 2012.

2 Sigismondo Bonfiglio, Italia e Confederazione germanica: studi documentati di diritto diplomatico storico e razionale intorno alle pretensioni germaniche sul versante meridionale delle Alpi, Paravia, Torino-Milano, 1863; Attilio Tamaro, Storia di Trieste, Edizioni Lint, Trieste, 1976, vol. II, pag. 300. Si tenga presente che l’appartenenza di Trieste alla Confederazione germanica rimase ignota alla cittadinanza fino al 1848. Alcune interessanti fonti sulla Confederazione germanica e sulla sua fredda accoglienza a Trieste e in Istria sono contenute in Francesco Salata, Il diritto dell’Italia su Trieste e l’Istria: documenti, Fratelli Bocca Editori, Torino, 1915.

3 Lo storico Attilio Tamaro cita un rapporto imperiale del 1718 – di poco precedente alla proclamazione del porto franco – nel quale si esprime l’intenzione di fare di Trieste “eine Tür von Teuschland”, una porta della Germania (Attilio Tamaro, op. cit., vol. II, pag. 175). Si tratta di un riflesso della cosiddetta “politica dei valichi” perseguita già nel Medioevo dai sovrani tedeschi, che dal X secolo avevano cercato di tenersi una strada aperta verso l’Italia (Gioacchino Volpe, Albori della nazione italiana, in Momenti di storia italiana, Vallecchi, Firenze, 1952, pp. 35-38; Girolamo Arnaldi, L’Italia e i suoi invasori, Editori Laterza, Roma, 2002, pp. 85 e 144). Trieste rimase un obiettivo geopolitico tedesco fino alla Seconda guerra mondiale: dopo l’8 settembre 1943, la Germania istituì la Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico (comprendente il Friuli, la Venezia Giulia e Lubiana) in vista di una sua futura annessione al Reich.

4 Attilio Tamaro, op. cit., vol. II, pag. 178 e ss.

5 Un interessante excursus storico sulle scuole pubbliche di Trieste dalle origini fino alla metà dell’Ottocento si trova nel verbale della decima seduta pubblica del consiglio municipale di Trieste tenutasi il 18 febbraio 1862, consultabile in Verbali della Delegazione Municipale di Trieste, Tipografia del Lloyd Austriaco, Trieste, 1865, pag. 3 e ss. L’episodio della richiesta avanzata dai triestini nel 1848 è riportato anche da Bernardo Benussi, L’Istria nei suoi due millenni di storia, Treves-Zanichelli, Trieste, 1924, pag. 485.

6 Aldo Tassini, La difesa della lingua materna nell’insegnamento, contesa dall’Austria, nella Rassegna Storica del Risorgimento, 1951, pag. 667 e ss.

7 Sull’argomento, cfr. Cesare Pagnini, I giornali di Trieste. Dalle origini al 1959, Centro Studi, Milano, 1959, pag. 63 e ss.; Giovanni Quarantotto, Le origini e i primordi del giornale letterario triestino La Favilla, nell’Archeografo Triestino, Trieste, III serie, vol. X, 1923, pp. 169-237; Giuseppe Caprin, Tempi andati. Pagine della vita triestina (1830-1848), Stabilimento Artistico- Tipografico G. Caprin edit., Trieste, 1891, pag. 79 e ss.; Giorgio Negrelli, Una rivista borghese nell’Austria metternichiana, nella Rassegna Storica del Risorgimento, 1978; Giorgio Negrelli, La Favilla (1836-1846). Pagine scelte della rivista, Del Bianco Editore, Udine, 1985.

8 Antonio Madonizza nacque a Capodistria l’8 febbraio 1806 e si laureò in legge a Padova, esercitando la professione di avvocato prima a Trieste e poi nella sua città natale. Si dedicò anche alla politica, venendo eletto come deputato all’Assemblea costituente di Vienna nel 1848. Nel 1867, a più di trent’anni di distanza dalla fondazione della Favilla, Madonizza si tuffò nuovamente nel giornalismo, comparendo tra gli ideatori della rivista La Provincia dell’Istria. Morì a Parenzo il 1° settembre 1880 (sulla figura di Madonizza, cfr. Giorgio Negrelli, voce Madonizza Antonio, in Österreichisches Biographisches Lexikon, 1972, pp. 402-403).

9 Domenico Rossetti fu una delle più eminenti personalità triestine tra il Settecento e l’Ottocento. Nato il 19 marzo 1774, si dedicò fin da giovane alla vita pubblica della propria città, alla promozione di svariate attività culturali e alla sua professione, l’avvocatura. Nel 1810 fondò la Società del Gabinetto di Minerva, la più importante associazione culturale cittadina, alla quale affiancò una rivista storiografica, l’Archeografo Triestino, pubblicata ancora oggi. Morì a Trieste il 29 novembre 1842 (sulla figura di Rossetti, cfr. Simone Volpato, voce Domenico Rossetti De Scander, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, volume 88, 2017).

10 Giovanni Quarantotto, La Favilla e la polizia austriaca, nell’Archeografo Triestino, Trieste, III serie, vol. XVI (1930-31), pp. 199-214.

11Poca favilla gran fiamma seconda” è un verso del primo canto del Paradiso di Dante. Esso sta a significare che anche dalle piccole azioni (“poca favilla”) possono scaturire grandi eventi (“gran fiamma seconda”). La frase, divenuta proverbiale, viene citata il più delle volte come monito a considerare attentamente le possibili conseguenze della propria condotta. In questo caso, tuttavia, il significato è palesemente augurale. Lo stesso motto verrà ripreso nel 1850 da Francesco Hermet nella nuova edizione del giornale.

12 Alla figura di Francesco Dall’Ongaro è dedicato l’articolo di Domenico Rossi Francesco Dall’Ongaro, patriota mazziniano. Il percorso politico, civile, letterario e rivoluzionario, pubblicato nel numero 10 dei Quaderni del Risorgimento a cura dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano – Comitato di Treviso, pagg. 42-62.

13 Cesare Pagnini, op. cit., pag. 73.

14 Giovanni Quarantotto, op. cit., pag. 211.

15 I numeri di questa prima edizione della Favilla sono consultabili online tramite l’emeroteca digitale della Biblioteca Nazionale Austriaca all’indirizzo https://anno.onb.ac.at/

16 Sul tema della censura e della stampa in Austria dopo il 1848, cfr. Cesare Pagnini, op. cit., pag. 87 e ss., e Giovanni Pistolato, “A Trieste, mia città natale”. Storia dello scrittore Demetrio Livaditi e del giornale triestino La Ciarla, Editrice Storica, Treviso, 2018, pag. 73 e ss.

17 Le memorie di Francesco Hermet che si citeranno di qui in seguito sono tratte da Marino Szombathely, Le memorie autobiografiche di Francesco Hermet, nella Porta Orientale, Febbraio 1933, Anno III, Fasc. 2. Per tutte le altre informazioni biografiche, la fonte di riferimento è Michele Gottardi, voce Francesco Hermet in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 61, 2004.

18 Roberto Spazzali, L’Unità d’Italia a Trieste, città dell’impero asburgico (1861-1919) in Trieste, Gorizia e l’Unità d’Italia, a cura di Grazia Tatò, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, Stella Arti Grafiche, Trieste, 2012, pag. 15 e ss.

19 Al tempo non erano ancora diffuse le edicole e la legge austriaca in materia di stampa vietava la vendita a mezzo strilloni. Solo i librai muniti dell’apposita licenza potevano distribuire i periodici.

20 Sempre nella prima pagina di questo numero, viene pubblicato integralmente il testo del provvedimento di sospensione precedentemente adottato dalla Procura di Stato.

21 Cesare Pagnini, Dei giornali triestini del decennio di preparazione ed in particolare della Ciarla, nella Rassegna storica del Risorgimento, 1952, n. 4, pag. 700.

22 La Favilla, numero 103 del 16 novembre 1851. Il testo dell’ammonizione è pubblicato in prima pagina per ordine dell’autorità.

23 Marino Szombathely, op. cit., pp. 108-109.

24 Riferimenti al processo si trovano nelle seguenti opere: Cesare Pagnini, I giornali di Trieste dalle origini al 1959, Centro Studi, Milano, 1959, pp. 165-166; Nereo Salvi, Fonti e documenti per la storia dell’irredentismo giuliano. I processi politici dal 1850 al 1860, nell’Archeografo Triestino, Trieste, serie III, vol. XXXIII (1960-61), pp. 119-121; Giuseppe Stefani, Cavour e la Venezia Giulia. Contributo alla storia del problema adriatico durante il Risorgimento, Le Monnier, Firenze, 1955, pag. 72.

25 I numeri della Favilla di Francesco Hermet (1850-1852) sono conservati presso la Biblioteca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste. L’ultimo numero uscito è il 184 del 25 agosto 1852, pubblicato a circa una settimana di distanza dalle condanne di Lustro e Lodoletti.

26 Giovanni Pistolato, op. cit.

27 Francesco Hermet, Ai miei elettori! Lettera aperta, Tipografia di G. Balestra & C., Trieste, 1879.

“Alto tradimento. Il processo contro Pietro Fortunato Calvi e correi (1853-1855)”, Alessandro Sacco

Esistono diverse ricerche dedicate al patriota veneto Pietro Fortunato Calvi, nato nel 1817 a Briana di Noale (Venezia) e resosi celebre nel 1848 per la guida del Cadore contro le truppe austriache. La biografia recentemente firmata dal professor Alessandro Sacco e pubblicata da Cierre Edizioni (2018) si distingue dalle precedenti per due aspetti: la restrizione del campo d’indagine agli ultimi anni di vita di Calvi – che coincidono con il fallito tentativo rivoluzionario nel bellunese nel 1853 e la conseguente condanna a morte per “alto tradimento” – e il ricorso ai verbali dell’inquisizione austriaca (i cosiddetti “costituti”) come fonte privilegiata per la ricostruzione degli eventi. Con riferimento a questo secondo aspetto, l’autore osserva che “una parte importante della vita di Calvi, dei suoi compagni – come di tanti patrioti – ci sarebbe ignota se non ci venisse narrata dai protocolli delle inquisizioni e dei processi”. Il carattere segreto delle cospirazioni risorgimentali, infatti, imponeva una comunicazione quasi esclusivamente orale di informazioni, fatti e persone coinvolte nelle trame anti-austriache, le quali dunque, il più delle volte, ci sono note nella misura in cui le autorità asburgiche ne vennero a conoscenza, avviando le indagini del caso. D’altro canto, le memorie stese dai protagonisti di quell’epoca, pur non rare, sono spesso redatte anni dopo lo svolgimento dei fatti, e in diversi casi risultano viziate da intenti agiografici, cioè di esaltazione acritica di un determinato personaggio o evento storico. Le carte austriache, al contrario, stante la maniacale attenzione per il dettaglio da parte degli organi inquirenti e la maggiore vicinanza temporale agli eventi, ci offrono un quadro tendenzialmente più fedele alla verità storica (sia pur con qualche distinguo, come vedremo). Di tale circostanza dava atto un grande studioso di processi intentati contro i patrioti risorgimentali, Alessandro Luzio, che nella sua opera dedicata al celebre processo Pellico-Maroncelli, intitolava il capitolo introduttivo La sincerità degli atti officiali austriaci e scriveva: “La procedura segreta austriaca, così funesta per i patrioti, avvinghiati nelle sue spire, può dirsi provvidenziale per lo storico, che – mercé quella congerie opprimente di costituti, di verbali, di rapporti, di note – è oggi in grado di ricostruire perfettamente le drammatiche lotte giudiziarie dei liberali italiani con gli inquisitori dell’ I. R. Governo”1.

Un limite, a dire il vero, lo incontrano anche gli atti processuali asburgici: non sempre, infatti, i patrioti interrogati erano sinceri nelle loro risposte. Tra i due estremi dell’accusato che “cantava” tutto e di quello che – nonostante le fustigate, le minacce di condanna a morte e le false promesse di libertà – si trincerava in un ostinato silenzio, negando ogni accusa2, vi era un’ampia zona grigia di patrioti che messi alle strette raccontavano parecchio, omettendo tuttavia diversi elementi e prestando particolare attenzione a non pregiudicare altre persone, specialmente se non coinvolte nel processo. In questa zona grigia si situa indubbiamente anche Calvi. Catturato in Trentino con una gran mole di documenti compromettenti (come la corrispondenza con Mazzini e Kossuth), il patriota di Noale si reputò perduto fin da principio e ritenne inutile confutare o nascondere circostanze rese evidenti dalle carte sequestrategli. Nell’interrogatorio del 18 ottobre 1853 (riportato per intero nel libro di Sacco), Calvi rispose puntualmente alle domande del commissario, fornendo una discreta quantità di informazioni, almeno finché si trattava di nomi e persone residenti in Piemonte o comunque fuori dall’Austria. Viceversa, quando le domande cominciarono a piegare sui suoi appoggi in Veneto, il patriota ribatté senza fronzoli: “… io non aveva nessuna relazione, non era diretto a nessuno, ed anche se lo fossi stato non lo direi, perché sarebbe un’infamia”. E ancora: “Io che non ho temuto le baionette austriache non posso nemmeno temere quelle misure di rigore che la Giustizia dice di poter contro di me attivare, qualora continuassi a voler mantenere il silenzio riguardo agli altri miei compagni”. La Corte non poté che prenderne atto, descrivendo Calvi come un uomo dal “temperamento serio ed altiero ed indole ferma; sostenuto e che sente molto l’onore, indifferente per la sua sorte, non avendo mai dimostrato il menomo turbamento, recandosi piuttosto a vanto le sue prestazioni per la rivoluzione e quindi ben lontano dallo spiegare pentimento e ravvedimento”. Colpisce infine, per l’aderenza al ritratto eroico dipinto dalla storiografia risorgimentale (o “ufficiale”, come preferiscono definirla i suoi detrattori), quanto scritto da mano asburgica nella relazione alla sua condanna a morte, tenutasi a Mantova il 4 luglio 1855: “Il condannato dimostrò negli ultimi minuti grande pacatezza d’animo, e montò il patibolo con fermezza e coraggio, senza dirigere parola al pubblico”.

Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, consiglio – oltre alla lettura del testo di Sacco – la consultazione dei verbali del processo, disponibili al seguente link: https://edizioni.cierrenet.it/wp-content/uploads/2018/06/costituti-per-sito.pdf

1 Alessandro Luzio, “Il processo Pellico-Maroncelli secondo gli atti officiali segreti”, Tipografia Editrice L. F. Cogliati, Milano, 1903, pagina 8.

2 Un celebre esempio di questo secondo tipo di patriota fu il trevigiano Luigi Pastro, coinvolto nel grande processo tenutosi a Mantova tra il 1852 e il 1853 contro diversi cospiratori mazziniani del Lombardo – Veneto, passati poi alla storia come “martiri di Belfiore” (dal luogo dove si tennero le esecuzioni capitali). Per il suo tenace rifiuto a ogni sorta di confessione, Pastro ottenne l’appellativo di “eroe del silenzio”. Anni più tardi, stese le proprie memorie del processo nel libro “Ricordi di prigione”.

“L’assedio di Vienna”, John Stoye

Chiunque abbia visitato Vienna si sarà probabilmente imbattuto in una delle tante lapidi commemorative della vittoria sui turchi nel 1683, quando le truppe ottomane arrivarono fin sotto le mura della città, rischiando di stravolgere l’assetto geopolitico dell’epoca e, chissà, forse anche il corso della storia. Esistono svariate fonti sull’argomento. Fra quelle contemporanee, una delle più autorevoli è senz’altro L’assedio di Vienna dello storico inglese John Stoye, scritto nel 1964 e pubblicato in Italia dalla casa editrice il Mulino nel 2009. L’impostazione del libro è di puro stampo accademico. Normalmente, le storie di una battaglia sono storie politico-diplomatiche e, ovviamente, militari. Il saggio di Stoye non si distanzia dal genere, toccando punte di precisione e accuratezza storica veramente notevoli, mancando però, almeno in parte, sotto altri aspetti. Vedremo più avanti quali. Partiamo intanto dai fatti.

L’evento fu indubbiamente epocale: la mancata conquista da parte dei turchi della capitale asburgica nel 1683 segnò da un lato la fine della fase espansiva dell’impero ottomano e dall’altro l’ascesa dell’Austria come potenza sovranazionale esercitante la propria influenza sull’Europa centro-orientale. L’aspetto che più mi ha colpito nella lettura del saggio è stato l’atteggiamento delle varie corti europee di fronte all’attacco turco che puntava dritto al cuore del continente. In generale, l’Europa di allora non sembrava vedere negli ottomani un pericolo comune, anzi, c’era chi calcolava di trarre dei benefici dalla loro azione, come la Francia del Re Sole, nemico dichiarato dell’Austria. La città di Vienna, esattamente come Costantinopoli due secoli prima, fu lasciata quasi sola di fronte all’esercito del sultano, guidato in questa occasione dal gran visir Kara Mustafa. Lo stesso imperatore Leopoldo d’Asburgo, appresa la notizia dell’imminente assedio, ritenne opportuno abbandonare la capitale assieme alla sua corte. A soccorrere gli austriaci nel momento del bisogno furono alcune valenti truppe inviate dai principi elettori tedeschi e soprattutto l’esercito del re di Polonia, Giovanni Sobieski. Legato all’Austria da un trattato firmato l’anno precedente, che prevedeva un reciproco obbligo d’intervento nel caso di attacco proveniente da Istanbul, il sovrano polacco fu spinto a soccorrere l’alleato anche da altre ragioni. Innanzitutto, occorreva consolidare il suo potere a livello interno, avversato da una parte non indifferente della nobiltà del suo Paese. Quale chance migliore, dunque, se non una guerra contro l’odiato nemico ottomano? La vera necessità, tuttavia, era evitare di avere il turco alle porte di Cracovia. Caduta Vienna, il sultano si sarebbe sicuramente diretto verso la Polonia e questo, logicamente, valeva più di ogni altra motivazione. Difesa (preventiva) della patria, dunque. Ma non solo. La cattolicissima Varsavia era infatti fiera di ergersi a baluardo della cristianità contro l’invasore islamico, raccogliendo in tal senso non solo le suppliche dell’Asburgo, ma anche i calorosi appelli di papa Innocenzo XI.

La tattica offensiva dei turchi, che per poco non si rivelò efficace, era quella di costruire dei cunicoli sotterranei fino ai bastioni delle mura viennesi, piazzando al loro termine delle mine che una volta esplose avrebbero dovuto creare una breccia nel sistema difensivo avversario. Trincerati nella loro cerchia muraria, i cittadini di Vienna possedevano viveri e beni di prima necessità per circa quattro mesi, ma le modalità d’attacco ottomane rischiavano di far capitolare la città molto prima. Un rapido aiuto esterno era dunque quanto mai vitale per le sorti della capitale austriaca. La colonna di soccorso arrivò nei pressi di Vienna il 12 settembre, dopo circa due mesi di assedio. La battaglia infuriò per una giornata, ma alla fine le truppe tedesche e polacche ebbero la meglio sui soldati del gran visir, il cui errore principale fu quello di non predisporre un serio meccanismo di difesa per l’esercito assediante. Kara Mustafa, infatti, sottovalutando le capacità di resistenza del nemico, aveva diretto tutti i suoi sforzi alla conquista di Vienna, senza cautelarsi in vista dell’arrivo delle armate cristiane.

L’intera vicenda, a partire dai suoi antefatti, viene esaminata scrupolosamente dall’autore, il quale dedica particolare attenzione alle intricate trame diplomatiche dell’epoca nonché alla formazione e ai movimenti delle truppe accorse in sostegno dell’Austria. John Stoye, tuttavia, preferisce spendere poche parole sui veri protagonisti dell’assedio, ovvero i turchi e i viennesi. La sua idea, evidentemente, è che le sorti del conflitto si siano decise altrove, vale a dire negli scambi fra le corti interessate e nell’organizzazione militare del contrattacco. In quest’ottica, la resistenza degli abitanti di Vienna e lo spirito con cui i turchi tentarono vanamente di conquistare la città passano in secondo piano. Ad ogni modo, un maggiore interesse a come venne vissuto l’assedio dai suoi attori principali avrebbe sicuramente offerto un’opera più completa. In parte, probabilmente, si sarebbe scivolati dal piano storico a quello delle “memorie”, ovvero a rappresentazioni soggettive dell’evento. Si sarebbe dovuto ricorrere, infatti, agli scritti di qualche cittadino viennese o al diario di un soldato turco, cioè a fonti storicamente meno affidabili. Un tentativo di ricostruzione in tal senso sarebbe stato comunque apprezzabile. Per il resto, il saggio, anche grazie alla sua sintesi, rimane senz’altro consigliabile a chiunque abbia solamente sentito parlare dell’assedio di Vienna e desideri approfondire l’argomento.

“Cos’è il supermercato”, articolo Domenica del Corriere 19 ottobre 1958

Questo interessante articolo di costume apparso sulla Domenica del Corriere del 19 ottobre 1958 (n. 42) descrive una delle grandi novità dell’epoca: il supermercato. Arrivato dagli Stati Uniti nel dopoguerra e comparso inizialmente nelle principali città italiane, verso la fine degli anni Cinquanta il supermercato annunciava di diffondersi a macchia d’olio su tutto il territorio nazionale, vincendo lo scetticismo di quanti credevano che questa modalità di vendita non potesse attecchire in Italia. La vastità dell’offerta, il prodotto preconfezionato, l’assenza di un commesso con cui trattare quantità e prezzo sono le più rilevanti innovazioni portate dal supermercato, il quale si presenta subito come una “lusinga irresistibile” per i consumatori italiani. Non manca tuttavia l’altra faccia della medaglia: il supermercato – ci avverte l’articolista – è anche una grande trappola ingegnata per farci spendere quando in realtà non ne avremmo bisogno.

“Cos’è il supermercato” (articolo di Marisa Mazzini, disegno di Ugo Guarino)

Supermercato” è quel negozio di alimentari e drogheria dove i clienti si servono da sé. E’ una invenzione americana. In Italia per ora esistono supermercati a Milano, Roma, Salerno. Se ne aprirà presto uno a Napoli. Negozi-pilota a semi “self-service” o a “self service” completo o anche di tipo tradizionale, ma con “vendita visiva”, si aprono ad Arezzo e Macerata in questi mesi. Già ne esistono a Milano, Vicenza, Treviso, Padova, Bologna e Genova.

Il supermercato è la soluzione moderna del “mercato” di generi alimentari e di drogheria, il riassunto di cinque o sei negozi: macelleria, latteria, pescheria, drogheria e fruttivendolo. Un sistema nuovo di fornirsi e di vendere: il self-service, cioè l’acquisto che si fa senza commesso. Il prodotto preconfenzionato e prezzato.

Supermercato, lusinga irresistibile. La signora un po’ snob, spingendo il carrello per la lunga corsia del supermercato si sente “tanto America”, il marito che ha la moglie al mare si sente finalmente a suo agio, la massaia, dimenticate le abitudini per la curiosità, pensa quanto può risparmiare e ritorna.

Quando, alcuni anni fa, si cominciò a parlare di supermercato, e di self service, ci fu chi disse, aggiornata la frase: “e ora inventateci i clienti. Saran cose che piacciono in America. Noi non siamo macchine per comprare. Chi rinuncia a tirare sul prezzo?”.
Individualisti come siamo, accontentarci non è facile. In Italia si producono 170 tipi di pasta, per fare il primo esempio sottomano. Il supermercato però non ci “pianifica”. A partire dai più piccoli, 400 metri quadri, ai più grandi, 800 metri quadri, i supermercati vendono dai 1200 ai 2500 articoli. Una vera città del consumo. Ampio è quindi il campo delle preferenze e delle scelte. Diversi, l’uno dall’altro, i clienti.

All’apertura di un supermercato milanese c’era una ressa da “prima”. Un incaricato regolava l’accesso. Sulle “gondole”, banchi che stanno in mezzo al negozio, come le loro omonime del mare, la prima abbondante suggestione offerta dai coloratissimi prodotti di richiamo, divertenti e inutili, i prodotti “civetta”. Irresistibile nei trasparenti vasi di vetro, il più incredibile stock di marmellate, frutta sciroppata, macedonia. Affollata la cassa, dove sostavano, in attesa del controllo, massaie e carrelli. Ognuna dava un’occhiata nel carrello dell’altra trovando un alibi per il suo così pieno. Una donna, nell’uscire, rifaceva a fatica la somma di numeri. Era la prima volta. Vinta, con fiducia del conto esatto, del prodotto di marca, dell’igiene e della conservazione, perfetta l’ultima perplessità, sarebbe ritornata.
Una volta entrata nel labirinto del supermercato, data la prima diffidente occhiata, comincia la curiosità. Tanto vedere non costa niente. Tutto contribuisce a farlo credere. Invece non è proprio così.

Una recente inchiesta americana ha messo in luce cose insospettate. La gente non acquista perché ha veramente bisogno di una cosa, ma perché una cose le piace. In una parola, la vendita è affidata all’istinto compulsivo: è emozionale. Stabilito questo fatto, psicologi e maghi della pubblicità si allearono per far comprare anche le cose inutili, per creare nuovi bisogni, accrescendo le suggestioni visive, rendendo più bello ogni oggetto, colorandolo, dando al colore una potente carica ipnotica. L’imballaggio divenne una scienza.
Abolita la “conta dei nasi”, ovvero la ricerca dei gusti del pubblico attraverso la statistica, si cercò di “emozionare” gli oggetti, di farli “vedere”. Da questo momento la lista della spesa cominciò a comprendere voci impreviste. Un bel giorno, da una inchiesta fatta dalla Dupont, risultò che solo una donna su cinque entrava al supermercato con la lista della spesa in mano. Tutte le massaie però, con lista o senza, trovavano il modo di riempire il loro carrello. Che cosa stava succedendo? La relazione rispose: sette acquisti su dieci sono provocati da un impulso momentaneo. Senza avvedersene (ogni prodotto dice “prendimi”) tutte le donne compravano di più. Si trattava di stabilire la ragione delle scelte e a ragione delle preferenze. L’acquisto di cibi aromatici o dall’odore pungente o degli oggetti resi “voluttari” dal colore rappresenta il novanta per cento degli acquisti totali.
Una massaia americana, alla quale si chiese perché aveva comprato una data conserva, rispose ingenuamente: “perché mi piace la scatola”.

Un detersivo, appena lanciato sul mercato, era stato presentato in tre diverse confezioni per sondare le reazioni del pubblico: astuccio blu, giallo e giallo-blu. Solo l’ultimo ebbe successo. Ma lo straordinario della cosa sta nel fatto che le risposte furono concordi: “la scatola gialla rovina la biancheria, il detersivo della scatola blu è molto scadente”.
I colori che fanno vendere sono il rosso e il blu. Il rosso impressiona le donne, il blu gli uomini.
Il Color Research Institute, specializzato nelle confezioni di richiamo, prima di lanciare un prodotto nella città campione, lo sottopone a un preventivo test oculare, per accertare il grado di attrazione.
Nei supermercati italiani è però raro che i prodotti possano creare una massa di colore. Poichè il supermercato vende senza commessi, i prodotti devono raccomandarsi da soli. Però sarebbe controproducente, almeno per il momento, non includere le marche tradizionali ormai ampiamente reclamizzate dal tradizionale imballaggio.

Altra novità, almeno per l’Italia, è il self-service, “io mi servo da sola”. Solo una trentina di persone, comprese quelle addette alla confezione, formano il piccolo drappello dei venditori. Ed anche in questa apparente lusinga, dell’”entrate e guardate”, sta la chiave psicologica che apre abbondantemente i portafoglio del cliente. L’Italia, ultima arrivata, è al primo posto nella tecnica del self-service. Al pane, però, almeno per il nostro gusto di italiani, almeno, è irrimediabilmente negata una confezione standard.

Poichè l’esigenza della vita moderna è quella di far presto, il supermercato è il negozio di oggi, che offre la possibilità di comprare, col minimo spreco di tempo, tutto quanto occorre e soprattutto abolisce la “coda”.
Quanto tempo occorre per girare un supermercato? Pochissimi secondi, esattamente dieci. Però se ci riuscite siete bravi: mille lusinghe vi fermano ad ogni passo. E fermarsi significa comprare. Quindi lo scopo è quello di trattenere il cliente, di lasciargli sempre qualcosa da cercare. Per questo i banchi “seri” sono posti dietro i prodotti-civetta, in fondo al negozio, ampiamente reclamizzati dalla luce. Se carne, pasta, detersivi, olio, sapone, riso, frutta fresca, zucchero, sono messi troppo a portata di mano, diventa estremamente facile comprare solo le cose indispensabili, ed andar via. Invece sulla strada dell’uscita si frappongono, tra il cliente e la libertà, le “trappole del superfluo”.
Profusione di cioccolata, dolciumi di ogni tipo, salse, pop corn, germogli di grano per il tipo salutista, crakers che non ingrassano di un grammo, creme da spalmare sul pane, torte e sottaceti, caviale e coca-cola.
Non si trascura il comfort, offerto dall’aria condizionata, da una leggera musica di fondo, da un dispositivo per tenere il bambino davanti al carrello della mamma.

Ad ogni Paese, ad ogni città il suo supermercato. I nostri supermercati sono certamente diversi da quelli americani, dove, per esempio, c’è l’usanza di fare la spesa una volta la settimana, per l’enorme abbondanza di frigoriferi. Novantacinque donne su cento lo posseggono. I supermercati americani sorgono in periferia, e davanti vi è un grande parcheggio di macchine perché tutti comprano moltissimo. In Svezia, precisamente a Stoccolma, vi è un supermercato di prodotti di lusso. In Svizzera, come già a Milano, i supermercati sono collocati nei sotterranei dei grandi magazzini.
In Italia, dove i supermercati sono una novità di questi ultimi cinque anni, essi sono ancora “arroccati”, in numero limitato, nelle grandi città. Milano ne possiede sette e arriverà ai dieci alla fine di questo anno. I primi sono stati istituiti a Roma. Anche una città del sud, Salerno, ha il suo supermercato. Se però non tutte le città si possono giovare di questa nuova maniera di vendere, nelle città di provincia si stanno sviluppando negozi pilota a self-service o a semi self-service, per sondare, nel luogo, la possibilità di aprire un supermercato. Così si è fatto a Genova, a Bologna, a Cesena, dove è stato aperto un supermercato sperimentale durante la Fiera. Un sondaggio nell’opinione pubblica dei consumatori e dei visitatori di questo supermercato dimostrativo ha dato risultati interessanti. Intanto si è rilevato che, almeno in provincia, vi è tendenza a fare gli acquisti in generi alimentari giornalmente. Il grande interesse è rilevabile dall’affluenza di visitatori: diecimila al giorno.

Interrogati i visitatori sul maggior pregio che trovavano nel supermercato, 264 su 285 intervistati risposero di preferirlo per il self-service, altri perché il supermercato vende tutti i generi alimentari, altri per la celerità del servizio, o per la possibilità di scelta, più ampia che nel negozio, o per il prezzo minore, reso possibile dalla entità delle vendite, o per l’igiene, o per i prezzi fissi, o per la disposizione delle merci. La più grande attrazione è stato lo scatolame.
Pur essendo altissima, 83 per cento, la percentuale di persone che, nella zona di Cesena, hanno mostrato tendenza a servirsi dallo stesso negozio di alimentari, centrale o periferico o mercato rionale, il 33 per cento dichiarò che avrebbe visitato abitualmente il supermercato, il 53 per cento qualche volta. Solo il 14 per cento si mostrò decisamente contrario.
Nonostante questi dati, relativi alla città di Cesena, non sia “moltiplicabili”, essi servono ad indicare chiaramente che i supermercati trovano terreno favorevole nella città e nella provincia”.

“Il povero musicante”, Franz Grillparzer

Il povero musicante (conosciuto anche come Il povero suonatore) è uno dei pochissimi testi in prosa lasciatoci dal grande poeta austriaco Franz Grillparzer (1791-1872). Le prime pagine del libro – ambientato nella Vienna dell’Ottocento – sono dedicate a una meravigliosa festa popolare che si teneva in piena estate sulle rive del Danubio: la sagra di Santa Brigida. L’incipit è veramente una chicca: alla maniera elegante degli scrittori dell’epoca, ci viene offerto lo sguardo su una realtà paradisiaca, da paese dei balocchi. Nella festa di Santa Brigida, infatti, danza, vino, buoni bocconi e fuochi d’artificio danno vita a un’atmosfera incantata, quasi surreale, dove non esistono differenze sociali e tutte le sofferenze sono dimenticate. Il quadro è dei più idilliaci, una vera esaltazione della gioia di vivere viennese. Tutto sembra apparecchiato per una storia allegra e spensierata, quando il nostro autore finisce per concentrarsi su un particolare dal sapore amaro: un povero, anziano violinista che dietro al suo vecchio leggio suona sempre la stessa inconsistente melodia, suscitando l’ilarità dei presenti, i quali non lo degnano neppure di un’elemosina. Il suo contegno estremamente dignitoso e alcune parole in latino stimolano però la curiosità di un passante, che vi intravede il segno di un trascorso ben più nobile di quell’esistenza oscura. Dalla conversazione tra i due scaturisce il vero racconto, quello della gioventù del povero suonatore e di un amore perduto anni addietro per inettitudine e ingenuità.
Pagina dopo pagina, si delinea una malinconica novella sentimentale, dalle sfumature fiabesche, dove affiorano alcuni dei temi tipici di questo genere letterario: un padre dispotico, un’educazione dura e severa, una quotidianità grigia e insieme a tutto questo una promessa di redenzione, anzi due: la musica e una ragazza. La ragazza purtroppo resta un miraggio, e la musica, senza amore, assume i connotati di una lamentosa e nostalgica rievocazione.
Il protagonista del libro è a sua volta un personaggio ricorrente nella produzione letteraria austriaca di fine impero: un uomo riservato, umile, dai modi signorili ma decisamente poco pragmatico. Un personaggio che con alcune modifiche e un’indagine psicologica molto più accentuata sarebbe poi entrato anche nella nostra letteratura grazie all’opera di Italo Svevo: l’inetto. Contraddistinto da una deprimente incapacità di vivere e da un costante timore per l’azione, l’inetto è generalmente una persona animata da buoni valori e propositi, ma che a causa di un’irrimediabile inconcludenza finisce ai margini della sua stessa vita, rimanendone spettatore impotente.
Nell’opera di Grillparzer questa caratterizzazione acquisisce dei tratti forse esagerati, ai limiti del patetico. Come sempre in questi casi, occorre tenere a mente il gusto e la morale dell’epoca, dove la rinuncia e l’umiliazione di sé (entro una certa misura) potevano ricordare la figura di un santo o comunque quella di un buon cristiano.
Tradotto in italiano dal germanista Ervino Pocar, Il povero musicante di Grillparzer è stato stampato per anni dalla Mondadori. Al momento l’unica edizione in commercio è quella della Passigli (sempre con la traduzione di Pocar).

Conversazioni di Nassau William Senior con Daniele Manin (I parte)

Tra il 1848 e il 1852 l’economista inglese Nassau William Senior ebbe modo di conversare a Parigi con alcuni rilevanti personaggi dell’epoca, fra cui il patriota italiano Daniele Manin, protagonista dell’insurrezione veneziana del 1848-49. Manin si trovava a Parigi a seguito del suo esilio decretato dall’Austria nel 1849. Le conversazioni di Nassau Sr sono state trascritte in due volumi pubblicati dalla figlia nel 1878 sotto il titolo di Conversations with M. Thiers, M. Guizot and other distinguished persons during the second empire. I dialoghi con Manin, che presentano alcuni spunti interessanti sia sul ‘48 veneziano sia sulle prospettive del movimento nazionale italiano, sono riportati in lingua inglese, nonostante si fossero presumibilmente tenuti in francese.

Non esistendo una versione italiana del testo, ho tradotto dall’originale i passi più rilevanti. Nel dialogo che segue, Manin e Nassau Sr discutono inizialmente degli effetti della dottrina politica dell’eguaglianza, senza risparmiare critiche a quella che era comunque da loro considerata un’innovazione positiva. Dal canto suo, Nassau Sr afferma che “la proclamazione dell’uguaglianza, l’abolizione dei privilegi, il livellamento delle piccole aristocrazie – alcune regnanti, altre nobili, altre commerciali, altre ancora ecclesiastiche o municipali – che in passato costellavano l’Europa può anche essere stata una benedizione, ma non sotto tutti i punti di vista. Ha distrutto tutti quei piccoli nodi di resistenza che tenevano sotto scacco le grandi autorità centrali. Ha cancellato le ambizioni e le rivalità locali che favoriscono la nascita di grandi uomini anche in piccole comunità”.

Manin concorda, affermando a sua volta che “l’uguaglianza non ha generato libertà. Forse l’ha diminuita. Allo stesso tempo, ha probabilmente ridotto tutto il precedente carico di oppressione. Prima del 1789 il sovrano aveva molti meno poteri, ma i signori locali ne avevano molti più di ora. E dal momento che questi erano centinaia, il popolo, inteso come massa distinta dall’aristocrazia, ci ha probabilmente guadagnato”.

Segue a questo punto una domanda di Nassau Sr, che riguarda da vicino Venezia, il Veneto e gli effetti portati in queste terre dal ridimensionamento dell’antica aristocrazia lagunare.

Senior – In termini politici, qual è stato il guadagno e la perdita nei territori veneziani?

Manin – Il nobile veneziano è sempre stato oppresso, prima dal Consiglio dei Dieci1 ed ora dalla polizia austriaca. Tuttavia si è sempre consolato al pensiero di essere parte integrante del potere costituito. Una compensazione ancora maggiore l’ha avuta nel sentirsi uno degli attori principali di un’illustre compagine che è stata potente e gloriosa per più di un millennio. Occorre tenere presente, ad ogni modo, che a Venezia c’è sempre stato poco spazio per la libertà individuale o per la gloria del singolo. La città ha compiuto grandi imprese, ma ha generato pochi uomini di alto spessore. La gelosia di Venezia sembra aver costretto i suoi eroi a desiderare l’oblio più che il successo personale. Ma il popolo era felice e soddisfatto sotto il suo potere. Anche le città della terraferma – nonostante versassero in una situazione che definiremmo penosa, ovvero la soggezione a un’aristocrazia lontana – ricordano con nostalgia il dominio veneziano. Venezia consentiva loro di trattare i propri affari sotto un Podestà2, che gli veniva inviato ogni anno. Le tassava parecchio, le proteggeva, di fatto le trattava come voi trattate le vostre colonie. Quando l’Austria se ne andrà non lascerà nulla di simile.

Senior – E che cosa contestate maggiormente all’Austria?

Manin – La nostra principale contestazione è che gli austriaci sono tedeschi, mentre i veneti sono italiani, e questi popoli sono divisi da una totale antipatia. Noi li reputiamo inferiori quanto a intelligenza, morale, civiltà e coraggio; in breve, sotto ogni aspetto, esclusa la forza bruta3. Li disprezziamo tanto quanto gli inglesi disprezzano gli irlandesi. Se voi foste governati dagli irlandesi, li odiereste tanto quanto noi odiamo gli austriaci. Sentiamo inoltre che il loro dominio viene da un mero furto, come quello che potrebbe commettere un mercante di schiavi quando acquista un nero strappato dalla sua terra. L’Austria non ci ha mai sconfitti in battaglia, non ha mai avuto alcuno scontro diretto con noi e quindi non ha nessun diritto su di noi. La Francia ritenne opportuno conquistarci solo perché era forte e noi eravamo deboli. Ma non voleva tenerci, così ci ha venduti all’Austria. Qualcosa di simile alla cessione della California.

Questo è la base della nostra opposizione al dominio austriaco.

Andando nello specifico, contestiamo la massiccia coscrizione che ogni anno ci priva dei nostri migliori contadini, rovinando la loro gioventù sotto un cielo tedesco, con un’uniforme tedesca e sotto un bastone tedesco. Contestiamo l’alta tassazione, i cui proventi sono tutti devoluti a finalità che non ci riguardano. Le entrate pubbliche di un Paese libero o indipendente sono una semplice porzione del reddito di tutti gli uomini impiegati dal governo centrale per il bene comune. I duecento milioni che Lombardia e Veneto inviano ogni anno a Vienna servono a pagare e mantenere i quattrocentomila uomini che tengono a bada l’Ungheria e la Galizia. Venezia è un porto franco, ma le città della terraferma lamentano che i loro commerci e consumi sono limitati da tassi proibitivi imposti per permettere a pochi miserabili artigiani boemi e tirolesi di trascinare un’attività ormai al collasso e per nulla remunerativa.

Contestiamo la preclusione di ogni carriera per i nostri giovani. Contestiamo che tutte le questioni attinenti al governo e all’amministrazione della nostra terra siano affidate a stranieri, che solitamente non conoscono la nostra lingua e che disprezzano sempre i nostri costumi. Sopra ogni cosa, contestiamo l’amministrazione della giustizia.

Senior – Credevo che l’amministrazione della giustizia nei domini dell’Austria fosse specchiata, per quanto severa.

Manin – Non è specchiata. Non potrebbe nemmeno esserlo, considerato che gli stipendi corrisposti a chi se ne occupa sono così bassi da impedire di viverci. E anche se fosse amministrata con onestà, le leggi resterebbero comunque intollerabili. In tutte le cause penali viene applicata la vecchia procedura inquisitoria tedesca; una procedura di cui non si sa nulla eccetto quello che si legge negli annali della Santa Inquisizione – un tribunale ingiustamente additato di aver dato inizio a un un sistema che nei fatti esisteva da tempo e che poi gli è sopravvissuto. Secondo questo sistema un uomo viene processato in sua assenza; non conosce l’accusa rivoltagli contro; non sa da chi venga o chi siano i testimoni. Tutto ciò che il tribunale gli dice è che deve essere consapevole della sua colpa e confessare. Ottenere una confessione è il trionfo di qualsiasi magistrato austriaco; e ogni mezzo di tortura morale, le torture fisiche di anni di prigionia, il cibo insufficiente e talvolta le percosse sono sovente usati per costringere l’accusato a confessare. Quanto alla giustizia civile, le complicazioni sono innumerevoli, le spese e i ritardi infiniti; le prove sono tutte scritte. Il giudice, un tedesco, raramente le capisce, spesso non le legge neppure, e una causa trascinata avanti per anni costringe le parti, ormai esauste, a un compromesso.

Circourt4 – E’ significativo che l’Austria si sia sempre premurata di impiegare italiani in Germania e tedeschi in Italia, arrecando pressapoco lo stesso danno ad entrambi i popoli.

Senior – Qual era il vero obiettivo dell’insurrezione veneziana?

Manin – Preferivamo essere una repubblica indipendente confederata con gli altri Stati italiani. Avremmo comunque accettato di divenire parte di un unico grande regno comprendente tutta l’Italia5.

Se Carlo Alberto si fosse presentato in modo disinteressato; se non avesse condotto una guerra personale per l’ingrandimento del Piemonte; se non avesse proposto null’altro che la cacciata dei barbari dall’Italia, consentendo agli italiani di occuparsi in autonomia dei propri affari, oggi penso che avrebbe anche potuto farcela. Ma le mie speranze svanirono non appena si volle annettere Milano. L’intero carattere della guerra era mutato. Kossuth, e successivamente il ministro di Ferdinando in Ungheria, poterono denunciare l’invasione piemontese come un insidioso tentativo di derubare l’Austria nel pieno della sua debolezza rivoluzionaria. Il Papa, il Granduca di Toscana e il Re di Napoli si allarmarono. Videro che il Piemonte stava usando il pretesto di una guerra di liberazione per condurre una guerra di ambizione e conquista. Per ultimo, il popolo italiano perse il suo entusiasmo e ogni speranza. I piemontesi hanno fatto di Carlo Alberto un santo. Loro, forse, possono perdonargli il male compiuto; il resto d’Italia no.

1 Organo della Repubblica di Venezia costituito nel 1310 e durato fino al 1797. Era deputato a vigilare sulla sicurezza dello Stato.

2 In italiano nel testo.

3 Quelle di Manin sono parole dure, certamente più vicine al nazionalismo che al patriottismo romantico. Ad ogni modo, si consideri la condizione personale di quest’uomo, che dagli austriaci subì prima il carcere e poi l’esilio in Francia. Si conti peraltro che proprio nel viaggio verso Parigi perse sua moglie Teresa, vittima del colera. Il rancore di Manin verso l’Austria ne uscì esacerbato.

4 Adolphe de Circourt (1801-1879), diplomatico e storico francese presente alla conversazione tra Manin e Nassau Sr.

5 Questa dichiarazione ricorre spesso negli articoli di chi intende dimostrare una presunta estraneità del Veneto al movimento risorgimentale. Esiste infatti un filone minoritario, più vicino alla politica contemporanea che alla storiografia, secondo cui la rivoluzione veneziana del ‘48 avrebbe mirato unicamente alla restaurazione della repubblica veneta, difettando di qualsiasi ideale unitario. Senza elencare le innumerevoli fonti contrarie (per le quali non basterebbe un intero volume) e volendo soffermarsi unicamente sulla dichiarazione di Manin, è sufficiente osservare che:

a) non si parla di una repubblica veneta del tutto indipendente, ma confederata agli altri Stati italiani, quindi con una dieta e una costituzione comuni e una politica estera e militare condivisa;

b) nel 1848, la prospettiva di una confederazione italiana era rivoluzionaria rispetto agli ultimi 1300 anni di storia, che avevano sempre visto una penisola politicamente frammentata; in altri termini, parlare di confederazione all’epoca (differentemente da quanto accadrebbe oggi) significava auspicare una forma di unità e coesione nazionale, a parziale discapito degli interessi locali;

c) in ogni caso, non viene scartata l’ipotesi di un Stato italiano unito e centralizzato, per di più monarchico.

Epidemie del passato

Non ci eravamo abituati, ma era già successo, lasciandosi dietro la stessa coda di polemiche.

Tempo fa, durante alcune mie ricerche, trovai questa prima pagina della Favilla, un elegante giornale triestino dell’Ottocento.

Il numero è del 16 ottobre 1850 (170 anni e una settimana fa), ma potrebbe essere scritto oggi, se non in Italia sicuramente in qualche altro Paese d’Europa o del mondo. All’epoca si era appena usciti da un’epidemia di colera e altre se ne temevano:

“Non traspirò nulla […] circa ai provvedimenti da prendersi onde tenere lontana la minacciante invasione del morbo indiano; solo si lesse un avviso della Commissione sanitaria che raccomanda al popolo alcune precauzioni dietetiche le mille volte ripetute e sempre inutilmente. Sta però bene che non si trascurino simili avvertimenti, e sarà meglio ancor quando sieno seguiti da misure di efficacia più pronta e sicura”

Poi un articolo dai toni piuttosto accesi, intitolato “POLEMICA“, dove la Favilla attacca frontalmente un altro giornale triestino, l’Osservatore (di stampo filo-austriaco), per una diversità di vedute sulla gestione dell’emergenza sanitaria da parte dell’amministrazione cittadina:

“Noi censurammo soltanto, ed in ciò persistiamo, il difetto totale di misure preventive atte ad arrestare l’invasione del morbo od almeno la sua maggiore diffusione. Che importa se una Commissione fu nominata sino dal giugno se sino al settembre essa non diede segni di vita?”.

“Ci basti riandare a quei mesi funesti in cui il male, latente in prima, scoppiava con violenza inusitata. Quali provvedimenti erano stati presi, quali misure preventive adottate?”

E poi, il solito vecchio augurio: “… parliamone, chè forse la sperienza del passato varrà a renderci più saggi per l’avvenire“.

“Nazionalisti e patrioti”, Maurizio Viroli

viroliDedicato alla memoria di Carlo Azeglio Ciampi, Nazionalisti e patrioti (2019) è un breve saggio di Maurizio Viroli sulla differenza che corre tra i due concetti e sulla necessità di contrastare gli attuali sovranismi con il linguaggio proprio del patriottismo repubblicano, definito come “una preziosa risorsa per far rinascere la coscienza civile degli italiani”. Se da un lato, infatti, il nazionalismo insegna ad amare la propria terra più delle altre e a disprezzare o odiare gli altri popoli, il patriottismo, dal canto suo, esorta all’impegno per la libertà politica e la giustizia sociale, nel convincimento che “la nostra lealtà e il nostro affetto devono andare alla patria intesa come libera repubblica di cittadini che hanno uguali diritti e uguali doveri”.

Nella storia italiana, l’ideale repubblicano di patria conobbe un vasto successo durante il Risorgimento grazie alle figure di Mazzini e Garibaldi, ma a dominare la successiva scena politica fu il nazionalismo, che raggiunse il proprio apice durante il ventennio fascista. A testimonianza della profonda differenza tra le due ideologie, l’autore cita alcune voci critiche levatesi durante il fascismo contro il patriottismo ottocentesco. Il giurista Alfredo Rocco, ad esempio, affermò che “il nazionalismo degli uomini del nostro Risorgimento non fu che mezzo per attuare il liberalismo e la democrazia”, mentre Giovanni Gentile condannò il patriottismo mazziniano per aver coltivato l’assurda idea che fine della patria è l’umanità. Conferme della cesura tra l’amor di patria risorgimentale e il nazionalismo delle camicie nere giunsero anche dal fronte opposto. Benedetto Croce infatti osservò che l’Italia delle guerre d’indipendenza, pur combattendo contro l’Austria, aveva tra i suoi motti “Ripassin l’Alpi e tornerem fratelli”, e aggiunse:Il nazionalismo odierno non è quel vecchio e sano patriottismo con sfondo umano e cristiano; ma è decadentismo letterario esasperato”.

Secondo Viroli, il nazionalismo di oggi può essere vinto solo utilizzando gli schemi e le parole tipiche del patriottismo repubblicano, il qualeapprezza la culturale nazionale e i legittimi interessi, ma vuole elevare l’una e gli altri agli ideali del vivere libero e civile”. La sinistra, invece di esaltare una presunta patria europea separata da quella italiana, dovrebbe volgere lo sguardo verso la migliore tradizione risorgimentale e costruire un linguaggio repubblicano capace di sconfiggere il nazionalismo della destra.

Il saggio di Viroli è senza dubbio encomiabile nella sua parte più accademica, quando cerca di dare un preciso significato alle categorie del patriottismo e del nazionalismo, ponendone in risalto le abissali diversità. Seppur valido, risulta invece meno convincente nell’ultimo capitolo, quello politico, dove sviluppa la tesi che l’avanzata dell’ideologia sovranista sarebbe imputabile a un’erronea strategia della sinistra italiana, colpevole di aver lasciato alla destra il monopolio del discorso nazionale. Una lettura a mio parere solo in parte condivisibile, dal momento che sembra trascurare il carattere internazionale dell’ondata nazionalista. Infatti, il sovranismo ha messo radici anche in Paesi dove le sinistre sono storicamente più propense della nostra all’utilizzo di un linguaggio patriottico (Stati Uniti, Francia e Regno Unito, etc…) e ciò impone, all’evidenza, una riflessione politica capace di andare oltre ai nostri confini nazionali.

“Trieste”, Carlo Yriarte

yriarteNel 1874 il viaggiatore francese Yriarte passò per Trieste e colse l’occasione per raccogliere alcune note su quella singolare e variopinta città dell’impero asburgico. Il suo diario di viaggio, comprendente alcune memorie sull’Istria, fu pubblicato l’anno successivo a Milano da Emilio Treves, come parte di una più vasta collana di testi battezzata Il giro del mondo. Nel 2013 l’opera è stata presentata nuovamente al grande pubblico in una nuova veste editoriale curata dalla Biblioteca dell’Immagine di Pordenone. L’autore, esattamente come nel 1875, è indicato con il nome di “Carlo” in luogo del francese “Charles”. Il libro, a cui è stato dato semplicemente il titolo di Trieste, non include le memorie di viaggio sull’Istria, a cui è stata dedicata una seconda e diversa pubblicazione nel 2014.

Agli occhi del lettore odierno il testo presenta essenzialmente due motivi di interesse: raffigura Trieste nel periodo della sua massima ascesa e denota una crescente curiosità per una città che nei decenni successivi avrebbe assunto una valenza fondamentale nell’immaginario collettivo nazionale. Pertanto merita sicuramente di stare nella libreria di chiunque si ritenga appassionato a Trieste, ma con una precisazione: è un diario breve e quindi non esaustivo. Yriarte alterna pagine che denotano una spiccata capacità di osservazione ad altre che, pur ricche di dettagli, si avvicinano alla freddezza espositiva di una guida turistica. 

“Il ritorno del padre” e “L’isola”, Giani Stuparich

luzinUn marinaio dal carattere burbero ritorna alla propria casa dopo anni di lunga assenza. Ad attenderlo c’è un bambino, che trepida all’idea di rivedere suo padre. Molto tempo più tardi quello stesso bambino, divenuto uomo, accetta di accompagnare il genitore anziano e malato nell’ultimo viaggio verso l’isola della sua giovinezza.

Il ritorno del padre (1933) e L’isola (1942) sono due amabili racconti dal forte sapore autobiografico di Giani Stuparich, uno dei protagonisti della felice stagione letteraria triestina del secolo scorso. Il rapporto con la figura paterna è delineato in entrambi i testi con rara delicatezza ed estrema sensibilità. La vicenda del padre e del figlio, fotografata prima nell’età dell’infanzia e poi nel momento del doloroso distacco, è un richiamo alla ciclicità della vita, nonché alla mutevolezza degli affetti familiari. Perché se uno soltanto è il padre, sentimenti e rapporti di forza evolvono a seconda del tempo e dei contesti, fino a giungere a un capovolgimento delle posizioni.

Per i loro numerosi e reciproci rimandi, i due racconti formano di fatto un dittico, rendendo obbligata una lettura congiunta. Lo stesso Stuparich, del resto, decise di porli rispettivamente all’inizio e alla fine di una raccolta dei propri scritti edita da Einaudi nel 1961, suggerendo così la loro intima connessione. Grazie alla casa editrice Quodlibet (che li ha recentemente ristampati) oggi è nuovamente possibile apprezzare queste due piccole perle della nostra letteratura.

In memoria del professor Brotto

Il covid si è portato via anche Fabio Brotto, mio insegnante di italiano e latino al liceo, una delle poche persone ad aver inciso in modo indelebile sulla mia visione del mondo. Uomo dalla cultura sterminata, nella sua vita Brotto era già stato colpito da amarezze di vario genere, ma ai miei occhi era sempre apparso saldo come un quercia, forte del suo sapere e della sua esperienza. Non l’ho più visto dopo gli anni del liceo, ma ho cominciato a seguirlo su facebook e sul suo blog, dove era molto attivo. Ogni volta che accadeva qualcosa, in Italia o nel mondo, ero curioso di conoscere il suo pensiero. Spesso non ero d’accordo, ma il più delle volte le sue parole mi offrivano una vista che diversamente non sarei stato in grado di aprirmi. La passione per la filosofia e il vissuto personale lo avevano portato in più occasioni a ragionare sulla morte, anche con noi, in classe. In questi giorni mi sono chiesto cosa avrebbe detto della sua. Mi duole non saperlo. 

“Autunno tedesco”, Stig Dagerman

tisk hostQuesta è la Germania, signor D., un cimitero bombardato”. Così nel 1946 un cittadino tedesco descrive il proprio Paese a Stig Dagerman, scrittore svedese inviato dal giornale Expressen per raccontare la situazione post-bellica nel vecchio Reich. Dagerman, all’epoca ventitreenne, realizza in poche settimane tredici articoli che verranno poi pubblicati a Stoccolma sotto l’emblematico titolo di Autunno tedesco (Tisk Höst). Un mondo di vinti e di emarginati popola le pagine di queste cronache, nelle quali viene esposto in modo lucido e conciso il dramma umano di un popolo afflitto dalla miseria, obbligato ad apprendere “l’arte di scendere in basso” per sbarcare il lunario. Se è vero che lo stesso disastro morale e materiale aveva colpito quasi tutti gli Stati europei, nel caso della Germania tutto ciò era visto come una giusta punizione, nella pretesa che il Paese imparasse dalla propria disgrazia. Si dimenticava però, come osserva Dagerman, che la fame e la guerra sono due pessime maestre: una pancia vuota non chiede democrazia, ma pane; le rovine e i figli caduti in battaglia non insegnano ad apprezzare la libertà, ma a convivere con la morte.

A scanso di equivoci, il discorso dell’autore (un convinto anarchico) non maschera simpatie per il regime passato, risultando piuttosto impregnato di una sincera compassione e di una genuina umanità. Il sottinteso legame che stringe le fila dei tredici articoli è una riflessione sulla sofferenza umana, che nella sua dimensione totalizzante conosce solo il presente, mettendo in secondo piano cause e colpe ed eliminando ogni orizzonte futuro. Secondo Dagerman, soltanto migliori condizioni di vita potevano consentire ai tedeschi di ragionare veramente sul proprio recente passato e di elaborare un avvenire che mettesse a proprio fondamento la democrazia.

Recentemente ristampato in Italia da Iperborea (2018), Autunno tedesco ricorda per certi versi la cosiddetta Trümmerliteratur (“letteratura delle macerie”), la quale, esattamente come il Neorealismo in Italia, si era diffusa in Germania per il bisogno di comunicare esperienze concrete vissute in anni drammatici, seguendo quel filo stretto che da sempre unisce la letteratura al dolore.

“A Trieste, mia città natale”, Giovanni Pistolato

2018-b9255Un vecchio taccuino e alcune carte inedite della polizia austriaca raccontano la storia di un uomo che per aver sfidato la censura fu costretto ad abbandonare la propria città.

Nella Trieste asburgica di metà Ottocento, un giovane scrittore di origini greche, Demetrio Livaditi, decise di fondare un giornale “che sotto il manto della letteratura tenesse desto il sentimento dell’italianità e della patria”.

La Ciarla uscì per poche decine di numeri, ma il tono dei suoi articoli allarmò le forze dell’ordine, che intervennero in più occasioni con multe, perquisizioni e sequestri. Le copie del giornale, fitte di allusioni contro Vienna,  andarono a ruba da quando cominciò a scrivervi Leone Fortis, un estroso e irriverente letterato nativo della comunità ebraica triestina.

Con questo libro l’autore ripercorre la movimentata storia della Ciarla e del suo fondatore, riportando così alla luce una delle pagine più ingiustamente dimenticate del Risorgimento di Trieste.

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Il volume “A Trieste, mia città natale” è disponibile al prestito presso le seguenti biblioteche:

  • Biblioteca Sormani di Milano
  • Biblioteca del Museo Civico del Risorgimento di Bologna
  • Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
  • Biblioteca Universitaria di Padova
  • Biblioteca del Museo Nazionale del Risorgimento di Torino
  • Biblioteca Civica Attilio Hortis di Trieste
  • Biblioteca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste
  • Biblioteca dell’Archivio di Stato di Trieste
  • Biblioteca Comunale di Treviso
  • Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia
  • Biblioteca Marciana di Venezia

“Il mito asburgico”, Claudio Magris

mythIl mito asburgico è l’immagine di un’epoca felice e armoniosa, di “un pittoresco, sicuro e ordinato mondo di favola”, di un impero gaudente e cosmopolita, amministrato con diligenza dai suoi funzionari e guidato con paterna saggezza dal suo sovrano, l’imperatore Franz Joseph. Una rappresentazione che gode ancora oggi di vasta fortuna, nonostante il confronto con la storia ne riveli spesso la natura fittizia e illusoria, connessa direttamente “a una secolare tradizione asburgica di deformazione della realtà”. Nel Mito asburgico (1963) lo scrittore Claudio Magris analizza questo suggestivo tema culturale, esponendo con ricchezza di riferimenti letterari la sua origine, nonché i suoi motivi fondamentali. Il risultato finale non è soltanto un monumentale saggio sull’argomento, bensì un appassionante viaggio nella letteratura mitteleuropea a cavallo tra Ottocento e Novecento.

La genesi del mito

Il mito incontra la sua stagione più feconda dopo la caduta dell’aquila bicipite, quando alcuni talentuosi scrittori orfani della vecchia monarchia (Roth, Zweig ed altri), disorientanti dall’incalzare dei totalitarismi, volgono nostalgicamente lo sguardo al passato, rimpiangendo una sorta di età dell’oro perduta. Nondimeno, secondo Magris, la genesi del mito risale a molto tempo prima, ovvero agli inizi dell’Ottocento, quando Francesco II, imperatore del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica, diventa Francesco I imperatore d’Austria. La rinuncia al titolo di Sacro Romano Imperatore, diretta conseguenza della sconfitta patita contro Napoleone ad Austerlitz (1805), costringe la dinastia Asburgo a trovare una diversa legittimazione del proprio potere. Sorge così l’ideale dell’impero sovranazionale, ovvero di più popoli uniti al sovrano da un vincolo paternalistico, quasi sentimentale. In prima battuta il mito riveste quindi una finalità squisitamente politica, fungendo da fondamento ideologico sul quale edificare la nuova monarchia asburgica, seriamente ridimensionata dalla caduta di un’istituzione millenaria e gloriosa come il Sacro Romano Impero. Il mito “letterario” nascerà qualche decennio più tardi, ma riprenderà tutti i motivi di quello “politico”, rinverdendoli e dando loro nuovo linfa.

Gli elementi del mito

I motivi fondamentali del mito asburgico sono molteplici. Il principale è indubbiamente quello sovranazionale. In contrapposizione all’ideale romantico di patria, che andava sempre più affermandosi in Europa, l’impero aveva eletto a proprio sostegno spirituale e ideologico un principio asseritamente superiore, in virtù del quale gli Asburgo sarebbero stati chiamati da Dio a governare su più genti. Nell’era degli Stati nazionali, definiti dallo scrittore ebreo Werfel come “unità demoniache”, l’appartenenza all’impero di tanti popoli diversi costituiva un motivo di vanto per la compagine asburgica, forse l’essenza stessa della sua civiltà. Questo ideale era condensato nel paterno “An Meine Völker!(“Ai miei popoli!”), pronunciato dall’imperatore Francesco Giuseppe, altro pilastro del mito. Figura nobile di vecchio saggio, “sommerso dal tempo e consapevole della fine vicina, chiuso nella solitudine come una vecchia quercia percossa dagli anni e dalle amarezze, l’imperatore sembra incarnare […] l’eroica mediocritas”. La monarchia austroungarica, all’epoca del suo crepuscolo, vive nella venerazione di quest’anziano sovrano, il cui ritratto pende pressoché ovunque: nelle case, nelle scuole, nelle chiese, nelle caserme, perfino nei bordelli. Franz Joseph rappresenta il “ferreo rigore e l’indefettibile fedeltà al posto assegnato”, la forza della tradizione, la costanza, la stabilità. Egli è il vertice dell’enorme piramide imperial-regia, dove tutti hanno la loro precisa collocazione, dal detentore della corona al più umile contadino della Galizia. Ogni buon suddito austriaco è consapevole del proprio ruolo all’interno della società e osserva quei vincoli di subalternità e obbedienza tramandati da generazioni che lo legano al padre, alla famiglia, alla chiesa e alla monarchia. Non a caso, come nota Magris, la più asburgica delle virtù è proprio la fedeltà, ovvero il ritrovare la propria essenza in un rapporto di subordinazione “che preserva dal disordine delle cose e dei sentimenti”. Questa virtù, tipicamente feudale, si trasferirà successivamente nella figura del burocrate, tanto cara alla letteratura austriaca. “Io non ho bisogno di dotti, ma soltanto di buoni impiegati”, disse un giorno l’imperatore Francesco I. Il burocrate, figura grigia ma al contempo umana e signorile, rappresenta il senso dell’ordine e della gerarchia, è una sorta di intermediario, “quasi come sacerdot[e], tra le cose del basso e quelle dell’alto”. La diligenza, la lealtà e l’attaccamento agli immobili valori del sistema austriaco ne fanno uno dei personaggi prediletti dei rievocatori del mito. Basti pensare, in proposito, al barone Franz von Trotta tratteggiato da Joseph Roth nella Marcia di Radetzky, o al Bancbano di Grillparzer: uomini che dirigono incessantemente i loro sforzi verso la tutela e la conservazione dello Stato, affrontando con dignitosa rassegnazione tutte le rinunce personali che ciò impone.

Tuttavia, quasi come compenso del sacrificio di sé per il bene supremo della monarchia, e come contropartita della mancanza di partecipazione politica, il suddito austriaco poteva alienarsi in una realtà mondana e sensuale, fatta di valzer, vino, caffè, donne e gioia di vivere. Si tratta senz’altro dell’aspetto più gaudente del mito asburgico, dove in maniera simile a quanto avviene nella Venezia del Settecento un “mondo morente si mette in maschera”, esorcizzando la fine ormai prossima con la musica, i balli e una leggerezza spensierata. L’edonismo, che ha per capitale naturale Vienna, si manifesta quasi come una necessità, ovvero quella dell’evasione dal reale per tuffarsi in un mondo fatato dove gira sempre il pollo allo spiedo e “un bicchiere e un cuore allegro sono i beni più grandi di questa terra”.

Ultimo elemento del mito, ma non per questo meno importante, è la cosiddetta “statica grandiosa”, o in altre parole, l’immobilismo. L’impero si avvicinava inevitabilmente a una bufera, che avrebbe decretato la sua fine. I suoi schemi culturali e ideologici erano contrari alla storia e non avrebbero potuto resistervi a lungo. Vi era dunque la convinzione diffusa, come scrisse Werfel, che “ogni passo, anche il più piccolo, era un passo nell’abisso”. La statica grandiosa altro non era dunque se non la rinuncia ad ogni dinamismo, l’ostinata e commovente conservazione dello status quo, l’imperativo categorico del non agire, perché ogni movimento poteva rivelarsi fatale. In termini culturali ciò si tradusse nel tendenziale rifiuto di ogni novità, in particolare di qualunque elemento potesse sapere di moderno. Sul piano politico, invece, questo atteggiamento si concretò essenzialmente nel tentativo di mantenere la pace, nella consapevolezza che la guerra avrebbe potuto spezzare il fragile equilibrio su cui si reggeva l’impero (come poi di fatto avvenne).

I rievocatori del mito

L’approccio al mito da parte degli scrittori austriaci appare tutt’altro che omogeneo. In primo luogo occorre distinguere due periodi, quello precedente alla Grande Guerra e quello successivo. Nel primo gli scrittori che aderiscono al mito narrano una realtà presente, che si manifesta ogni giorno sotto i loro occhi, sia pur nelle sue fasi finali (“Io sono un poeta delle cose ultime”, disse a tal proposito Franz Grillparzer). Nel secondo, invece, a dominare il campo sono la nostalgia e la memoria: la trasfigurazione del reale assume pertanto delle note più meste e malinconiche, tipiche dell’esule o del naufrago, che vivono nel ricordo della vita lasciata irrimediabilmente alle proprie spalle. Forse il vero mito è proprio quello di questi letterati, i quali, “balestrati nella nuova realtà sociale […] hanno cercato di capire il mondo di ieri, e ne hanno mitizzato le caratteristiche”. Significativamente, come osserva Magris, si tratta per lo più di scrittori ebrei, come Franz Werfel e Joseph Roth, che pubblicano la loro opera quando si va affermando o si è già affermato il nazismo e che, non potendo riconoscersi in alcun altro Paese, sono i veri eredi del tramontato impero, i custodi della sua anima.

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“Ballo al Palazzo Imperiale di Vienna”, Wilhelm Gause, 1900

La rievocazione della monarchia danubiana compiuta da quest’ultima generazione poggia principalmente sull’ideale dell’Austria felix, ma non mancano i casi in cui vengono messi a nudo gli aspetti più torbidi e opachi della società asburgica. Così Robert Musil nei Turbamenti del giovane Törless (1906) racconta le oscure vicende di un collegio militare dell’epoca, presagendo gli “irrazionalismi razzistici e misticheggianti che si sarebbero scatenati nell’Europa”. A sua volta Stefan Zweig, nel suo Mondo di ieri (1941), affianca la celebrazione dei bei tempi andati a pagine in cui vengono rivelate anche le ipocrisie e i perbenismi della civiltà mitteleuropea.

Una linea narrativa piuttosto equilibrata e al contempo affascinante è quella seguita da Joseph Roth, i cui romanzi appaiono tutti accomunati da una malinconica patina crepuscolare. La marcia di Radetzky (1932), che delinea la parabola discendente dell’impero attraverso la saga familiare dei Trotta, costituisce forse la vetta più alta raggiunta da questa letteratura. Qui i temi e i personaggi caratteristici del mito sono quasi interamente chiamati a raccolta, formando un complesso armonico dall’efficace impatto emotivo. Ad emergere non è tanto la vicenda dei Trotta, cui pure Roth partecipa con indubbia umanità, quanto piuttosto l’atmosfera di una civiltà debole e in progressivo disfacimento, giunta ormai al suo capolinea. La decadenza dell’Austria e il lento svanire delle sue antiche certezze trovano probabilmente in queste meravigliose pagine la loro migliore rappresentazione letteraria.

Il mito secondo Magris

L’opera di Claudio Magris non è certamente un’esaltazione del mito, ma piuttosto una sua approfondita e appassionata analisi, animata dal tentativo di individuare un filo conduttore a buona parte della letteratura austriaca moderna. Lo sguardo disincantato dell’autore ha portato molti a considerare il libro una demistificazione del mito stesso, quasi una sua demolizione. In effetti gli scrittori del filone “asburgico” risultano tutti smascherati nella rielaborazione dei tempi andati, ma ciò non significa che la loro opera non possa essere apprezzata con eguale intensità da una diversa prospettiva, più distaccata e consapevole, senza retorica o nostalgie ormai anacronistiche. Anche per questo motivo, a quasi sessant’anni dalla sua pubblicazione, Il mito asburgico rimane una lettura imprescindibile per gli amanti del genere.

Il quarantotto triestino nei ricordi di Leone Fortis

Leone Fortis (1827-1898), giornalista e patriota triestino dell’Ottocento, ricorda le prime agitazioni del ‘48 nella sua città. Lo sguardo pieno d’ironia e la prosa frizzante, caratteristici di questo scrittore ormai dimenticato, lasciano trapelare alcune note di nostalgia per una gioventù lontana e un’epoca irripetibile. L’episodio raccontato, per certi versi esilarante, vede come protagonisti Fortis stesso – all’epoca ventenne – e un gruppo di giovani patrioti, i quali, udita la notizia delle prime rivolte scoppiate nell’impero, trascinano dietro a sè una folla di manifestanti e si dirigono verso la residenza del governatore di Trieste, Roberto Algravio di Salm. Il governatore, svegliato nel sonno, intimorito dalla massa radunatasi sotto il suo balcone, dichiara la costituzione con un giorno d’anticipo rispetto alla sua proclamazione ufficiale a Vienna. Tuttavia, nonostante questi primi eventi all’insegna della libertà e del patriottismo, Trieste successivamente si mostra tiepida, per non dire fredda, di fronte alle istanze liberal-nazionali oggetto di rivendicazione in quell’anno di rivolgimenti e tumulti. Frattanto Leone Fortis, deciso a dare il suo contributo alla causa italiana, abbandona la città natale per prestare servizio prima nella repubblica veneziana di Daniele Manin e poi in quella romana di Mazzini, Saffi e Armellini.

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Eravamo nel 48 – si figuri! Al principio del 48. – Si cantavano i cori dei Lombardi e del Nabucco – si gridava Viva Pio IX – ed era un grido rivoluzionario. Un fremito di vita nuova correva per le ossa e le vene della vecchia Europa, e la faceva trasalire sul suo letto dal lungo sonno infingardo. Metternich non si raccapezzava più – i suoi devoti perdevano la bussola più di lui. I giovani sentivano che era venuto il loro tempo. A Trieste v’erano due partiti di fronte – il partito italiano: tutti i giovani, – il partito austriaco: tutti i prudenti, i grossi negozianti, i ricchi banchieri, conservatori per calcolo, per necessità, per abitudine. – Si aspettavano le notizie di Milano e di Venezia – Non si sapeva proprio quali notizie si aspettassero – ma se ne aspettavano – si tendeva l’orecchio dalla parte di Vienna – per udir che?… non si sapeva – ma c’era per l’aria un vago rumore indistinto, come di un tuono in lontananza, un odore di uragano – che i giovani respiravano avidamente. – Tutto era dimostrazione – un mazzolino di fiori, un nastro, il modo di portare il cappello, un applauso in teatro, una strada prescelta del paesaggio. – Che tempi! che vita! che gioventù!

Gazzoletti, il povero Gazzoletti, era tutto con noi. – Anima di fuoco, cuor di poeta, – tutto entusiasmo, fede, speranza. Si sperava, e si credeva tanto allora – senza concretare mai né speranze, né fedi. Nel cartellone del teatro Grande era annunziata per quell’inverno la Disfida di Barletta del maestro Likle – un tedesco – su poesia di Gazzoletti – un italianone.

Il soggetto, il poeta ci rendevano sicuri del fatto nostro. Ci solleticava la idea di fare un maestro austriaco complice, anzi strumento di una dimostrazione italiana. – Dovevano cantarvi la Ponti – il tenore Graziani – il baritono Fiori – due giovani romagnoli, pieni di fuoco – e Achille Lorini. Chi non lo ha conosciuto a Milano, il Lorini? Vero tipo milanese – un po’ fanfarone – ma buon figliuolo. – Lorini era Prospero Colonna – Graziani Ettore Fieramosca – Fiori… non mi ricordo – uno degli italiani.

La sera della prova generale si era tutti in teatro – per istudiare il campo di battaglia dell’indomani. – Nessuno sentiva la musica. – Si conoscevano i tumulti, le agitazioni di Vienna e si commentavano in lungo e in largo, tirando gli oroscopi dell’avvenire. A un tratto uno mi dice: Se andassimo incontro al corriere di Vienna! – E’ come una parola d’ordine – ci alziamo tutti – e fuori dal teatro. – Si attraversa in massa serrata il Tergesteo.

– Perdoni!… cosa è il Tergesteo?

– E’ una specie di Galleria Vittorio Emanuele assai più piccola – divisa in grandi stanzone terrene, di convegno, di affari, di lettura, di giuoco, di caffè. – E’ il commercio triestino che si raduna colà – e ci riceve tutta la cittadinanza.

– Ho capito – prosegua.

– Proseguo – Per via c’ingrossiamo – ci trasciniamo dietro mezzo Trieste. – Dove si va? A far che? – Nessuno lo sa – pochi lo chiedono. – Si prende la via di Opcina – una via sul monte, per cui si andava a Vienna, allora che non c’era la ferrovia. – Pioveva – eravamo nel cuor della notte – una notte umida, fredda – si batteva i denti – e si guazzava nella mota sino al ginocchio. – Ma si stava lì – ad aspettare.

48ts

Intanto eravamo diventati una valanga. – Quando Dio vuole, alle due, alle tre, si ode il rumore di un carrozzone. – Era il corriere di Vienna. – Finalmente! – Il postiglione che vede quella massa fitta di gente, arresta la carrozza. – Si apre lo sportello – il corriere esterrefatto balza fuori – capisce poco o nulla – parla a stento l’italiano. Lo s’interroga confusamente, tumultuariamente. – Che c’è di nuovo? – La costituzione? – la rivoluzione? – Il corriere risponde male, confuso, balbettando – nessuno lo ascolta – si grida: – è accordata la costituzione.Viva l’Italia! – viva la costituzione! viva la libertà! – e giù alla rincorsa per la china di Opcina, gridando il solito fuori i lumi che doveva essere la nota caratteristica del 48. E tutti ci ammassiamo di nuovo sotto il Palazzo del Governatore.

Era governatore un brav’uomo, molto insignificante, allampanato, timido, perplesso – un Algravio di Salm – cognome traditore, che si prestava ai più ameni e gastronomici bisticci.

Il pover’uomo è svegliato nel sonno, da queste grida che lo chiamano, che lo assordano. – Interroga, nessuna sa rispondergli. – Comincia anche in lui quella esterrefazione meravigliosa, fenomenale, che colpì in quell’epoca il governo austriaco, e tutti i suoi strumenti. Trasognato – mezzo spaventato – lo cacciano alla finestra – che si spalanca. – E’ interpellato da mille voci. – E’ vero che abbiamo la costituzione? – Che ne sapeva lui? – Non aveva avuto il tempo di leggere i dispacci da Vienna. – Risponde a caso – si tiene sulle generali. – Sì, sì, sì, tempestiamo noi dalla strada. – Era una domanda, una risposta, una minaccia, tutto insieme e tutto frammisto. Il povero Salm ondeggia e tentenna – Sì, sì, sì. – Si decide. – Sì, abbiamo la costituzione. – Un urrah spaventoso accoglie questa dichiarazione. Il Salm si accalora e vuol fare una perorazione di effetto. Triestini, grida alzando la voce con un erre pronunciatissimo, sclamiamo insieme Viva S.M. l’Imperatore che ci… che vi… sicuro, che vi accorda la libertà del pensiero! Uno scoppio d’ilarità omerica accoglie la notizia di questa graziosa concessione sovrana.

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Leone Fortis (1827-1898)

Per noi, ne avevamo abbastanza – ci spandiamo per la città, strepitando dei Viva di tutti i colori. I più tempestosi vanno al Tergesteo – la porta è chiusa. Si batte – sprepita – si scrolla l’uscio. La porta si spalanca – ci slanciamo alla stanza di lettura ove c’era un ritratto enorme del Principe di Metternich, in piedi, ritto, impettito, proprio in atto di dire che l’Italia non era che una espressione geografica. Il ritratto era sparito, – il signor De Bruck, allora direttore del Lloyd, aveva pensato a scongiurare la burrasca, – ed era lì pallido ma sereno, col suo sorriso leggermente ironico, quasi a riceverci.

Non ci occupiamo di lui e saltiamo sul tavolo – il tavolo dei giornali. – Arringhiamo la folla – noi, i più giovani, proclamiamo quel giorno festa nazionale – per nostro moto proprio – scriviamo queste due parole su tanti pezzetti di carta – dei popolani se ne impadroniscono e s’incaricano di affiggerli sulle porte di tutti i negozi. – Eravamo padroni del campo; i conservatori, gli austriaci, i prudenti, si erano rintanati. – Non dubitate, che sbucarono fuori a loro tempo.

Intanto fuori bandiere e coccarde – bandiere tricolori, s’intende, – coccarde di tutte le dimensioni, enormi, colossali, monumentali.

In poche ore la coccarda l’avevano tutti sul petto – compreso, per quella giornata, l’Algravio di Salm… E ecco come la costituzione fu proclamata a Trieste 24 ore prima che fosse accordata a Vienna. Per fortuna di quel povero Salm, a Vienna avevano altro pel capo”.

 – Tratto dalle Conversazioni di Leone Fortis (Doctor Veritas), Fratelli Treves Editori, Milano, 1877, pagg. 23-27 –

“Il silenzio del mare”, Vercors

VERCORSSono contento d’aver trovato qui un vecchio dignitoso. E una signorina silenziosa. Bisognerà vincere questo silenzio. Bisognerà vincere il silenzio della Francia. La cosa mi attrae”

Il silenzio del mare di Vercors, uscito clandestinamente nel 1942, è un racconto ambientato nella Francia della seconda guerra mondiale, agli inizi dell’occupazione tedesca. L’intera vicenda si svolge tra le quattro mura di una casa, dove vivono un anziano (la voce narrante) e sua nipote. I due, loro malgrado, devono ospitare Werner von Ebrennac, un ufficiale della Wermacht. Per mostrargli il loro disprezzo, decidono di trincerarsi in un silenzio glaciale, non rivolgendogli mai la parola. Werner, dal canto suo, è un nazista atipico: musicista colto e raffinato, pervaso da una sincera ammirazione per la cultura francese, sogna che i due Paesi un giorno possano fondersi e dare vita a una nuova civiltà. Parla di tutto questo ogni sera con l’anziano e la giovane che lo ospitano, ma i suoi discorsi dovranno scontrarsi prima con il loro silenzio e poi con l’amara realtà dei fatti.

Considerata unanimemente un’opera manifesto della Resistenza francese, di fiera opposizione all’invasore nazista, Le silence de la mer offre al lettore almeno due paradossi. Il primo è quello di dovere la propria intensità narrativa alla mancanza di dialogo. Si cita spesso, a ragione, la forza della parola, mentre si tende a sottovalutare quella del silenzio. Ebbene, qui il silenzio, come espressione di un rifiuto radicale e di una tenace volontà di resistenza, emana un’energia davanti alla quale è impossibile rimanere indifferenti. Il richiamo metaforico al mare, a sua volta, evoca un’idea di invincibilità ed immutabilità, dando a intendere che il popolo francese, apparentemente calmo e innocuo all’indomani dell’invasione, è pronto in ogni momento a scatenarsi in tempesta, iniziando la propria riscossa.

Il secondo paradosso è dato dal fatto che pur trattandosi di un libro “contro”, il nemico, impersonato dall’ufficiale Werner, assume contorni del tutto umani. Probabilmente Vercors non teme tanto la barbarie nazista, quanto la prospettiva che la sua Francia possa farsi pecora mansueta e assimilare gradualmente l’ideologia del conquistatore. L’intento politico dell’opera appare dunque chiaro: schiudere gli occhi ai francesi e ammonirli circa i propositi predatori della Germania hitleriana, contro ogni opposta parvenza.

La lettura di questo racconto (tradotto all’epoca da Natalia Ginzburg) non chiede più di due serate e fornisce un ottimo spunto di riflessione sia sulla vicenda storica che fa da sfondo sia sul successivo rapporto tra Germania e Francia, dal quale, come noto, scaturirà il progetto di un’unione tra i popoli europei.

“Mendel dei libri”, Stefan Zweig

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Siamo ai primi del ‘900 e a un tavolino del caffè Gluck di Vienna siede quotidianamente Jakob Mendel, “persona senza eguali e uomo leggendario”, capace di scovare il libro più strano nella più sperduta libreria antiquaria esistente. Non c’è volume che sfugga alla sua conoscenza enciclopedica, maturata in decenni di maniacale lettura, l’unica attività a cui abbia dedicato la propria esistenza. Oltre ai libri, però, Mendel non sa nulla del mondo ed è proprio questo innaturale distacco a giocargli un terribile scherzo, da cui non sarà più in grado di riprendersi, divenendo l’ombra di se stesso.
Pubblicato nel 1929,
Mendel dei libri è il racconto di un uomo travolto dalla Storia, la metafora di un mondo che inconsapevolmente viaggia spedito verso la propria fine, lasciando dietro di sé solo un ricordo sfocato. Una novella malinconica, dal sapore amaro, esempio di una celebre letteratura austriaca successiva alla Grande Guerra, capeggiata da Stefan Zweig e Joseph Roth, orfani della “belle epoque” asburgica.

“Il segreto”, Anonimo Triestino

il segreto
a Bianca,
nel cui costante pensiero le ho scritte,
dedico queste pagine, perché si meravigli,
e sorrida di tante fanciullaggini,
e provi forse un po’ di rimpianto

Il segreto dell’Anonimo Triestino (1961) è il racconto lucido e sofferto di un amore non confessato, che brucia nel profondo dell’animo senza mai venire alla superficie. Il protagonista della storia è Mino Zevi, un ragazzo timido, introverso e taciturno, abituato a nascondere i propri sentimenti e a vivere in disparte, limitandosi ad osservare e incamerare ogni movimento attorno a sé. Nulla sembra sfuggire al suo occhio, che riesce a cogliere anche il più lieve dei particolari, per trarne sempre qualche insegnamento. “Gran teorico della vita pratica”, come ama definirsi, Mino non è tuttavia in grado di tradurre in azione l’enorme mole di pensieri che affollano la sua mente, rimanendo un eterno incompiuto. Una volta iscritto al liceo conosce Bianca Sorani, se ne innamora perdutamente e trascorre lunghi anni ad ammirarla in segreto, logorandosi in un sentimento tanto acceso quanto inconfessabile. Ostaggio delle sue fantasie amorose, alle quali non sa dare né sfogo né spiegazione, Mino finisce per schiacciarsi da solo, cadendo vittima delle sue tortuosità psicologiche. Il suo scarso amor proprio, una costante paura del ridicolo e un’avvilente mancanza di coraggio gli impediscono il minimo avvicinamento alla ragazza, che resta penosamente lontana e inaccessibile.
L’elemento fondamentale attorno al quale ruota la narrazione è l’inettitudine del protagonista, la sua incorreggibile debolezza di carattere che lo porta a riflettere a lungo, troppo a lungo, senza mai essere conseguente, restando inerte, trincerato nel suo silenzio. Come se ciò non bastasse, Mino pare talvolta illudersi che il suo immobilismo sia l’espressione di una rara ed encomiabile forza interiore: sono molti i passaggi del libro in cui l’incapacità di vivere viene trasfigurata in cosciente volontà di rinuncia e la rassegnazione alzata al rango di virtù.
Sullo sfondo, frettolosamente accennata, emerge la Trieste della prima metà del Novecento, che fa da ambientazione a quasi tutta la vicenda, con ruolo quasi di comparsa. Il capoluogo giuliano viene descritto semplicemente come una città di mare, al punto da sembrare una scatola vuota, perfettamente interscambiabile con altre realtà ai fini della storia. La cosa tuttavia non deve stupire, poiché l’Anonimo sceglie come luogo privilegiato del suo discorso la mente del protagonista. La vera cifra triestina del romanzo sta invece nell’ispirazione palesemente sveviana delle sue pagine, che troviamo sia nella caratterizzazione della figura dell’inetto sia nell’indagine interiore svolta di continuo da Mino Zevi nella forma dell’autobiografia.
Il taglio profondamente introspettivo dell’opera, assieme all’impronta di mistero conferita dal titolo e dall’anonimato dell’autore (da molti identificato nel triestino Giorgio Voghera), fanno di questo libro una lettura singolare, a tratti dolorosa, sicuramente segnante. 

“Le famiglie che hanno ‘fatto’ Trieste: i Livaditi”, articolo di Marco Pozzetto

L’articolo che segue, a firma dello storico Marco Pozzetto (1925-2006), è stato pubblicato nel 1981 sulla rivista mensile triestina La Bora (anno 5, n. 1 – dicembre 1980 – gennaio 1981).
Con una prosa briosa, l’autore ci descrive i capostipiti di un’antica famiglia di immigrati greci trapiantati a Trieste: i Livaditi. Estrosi e buontemponi, propensi al litigio, dediti al commercio ma anche alla bella vita, i Livaditi furono tra i principali esponenti della comunità greca triestina tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.
Nella parte finale dell’articolo, seppur con qualche imprecisione, viene tratteggiata la figura dello scrittore Demetrio (1833-1897), ultimo grande esponente della famiglia.

s-l1600
Trieste, Via Mazzini (già Via Nuova) nella prima metà del Novecento.

“Allorché, verso l’anno 1773 le persecuzioni e le malversazioni esercitate dai Turchi verso i pacifici abitanti delle contrade greche raggiunsero il loro massimo grado, molti di questi si decisero a fuggire, e vennero a stabilirsi a Trieste…”. Tra questi anche “i tre fratelli Livaditi colla loro madre”, annota concisamente la cronaca greca.

Famiglia piuttosto anomala tra gli immigrati greci che, in particolare nella prima generazione, reputarono Trieste come una specie di “terra di conquista” in cui raggiungere con la massima fretta possibile posizioni preminenti nella attività più congeniali a ognuno: dalla bottega di tipo più o meno levantino alle posizioni direzionali o comunque preminenti nei vari settori del mondo economico; rimanevano loro poco tempo e voglia per le attività che oggi vengono definite del tempo libero. Per i Livaditi – Diamante (1744-1810), Stamati (1749-1812) e Michele (1752-1818) – questo schema è valido fino ad un certo punto; buontemponi, amanti del buon vivere, i tre fratelli riuscirono a portare a livello d’arte la propensione al litigio, famigliare o pubblico che fosse.

Al loro arrivo a Trieste Diamante aveva 29 anni, Michele 21; si misero in commercio la cui esatta natura è ancora sconosciuta. Probabilmente investivano i proventi negli stabili, raggiungendo un notevole benessere, ma non grandi ricchezze: evidentemente non furono posseduti dal demone della rivalsa. Amavano banchettare, con grande disappunto della madre che vollero eternare sul portale dell’opulenta casa di Via Mazzini 5, inaugurata nel 1800: la eternarono però nell’atto di mostrare la lingua a coloro che entrano…

Un grosso carteggio del Tribunale Commerciale e Marittimo conferma il curioso comportamento dei tre fratelli. Proprietari di un magazzino a Riborgo – demolito negli anni ’30 del nostro secolo – i Livaditi, ancora in unica ditta, aprirono una finestrucola sul confinante cortile magazzino di proprietà di Graziadio Isaia Minerbi, commerciante all’ingrosso. Probabilmente avevano bisogno della circolazione dell’aria per le merci, per cui non pensarono di accordarsi con il vicino. Questi, credendo ad uno sgarbo dei greci a lui, in quanto ebreo, decise di applicare l’antica regola del dente per dente… Forò infatti il muro, pressapoco sotto la finestrucola, infilando nel foro una trave di legno che sporgeva per un mezzo metro nel magazzino dei Livaditi e che forse aveva prodotto qualche piccolo danno alle mercanzie immagazzinate: tutte le operazioni venivano naturalmente eseguite durante la notte con la complicità delle tenebre. I Livaditi si rivolsero al Tribunale con una circoscritta denuncia per danni contro Minerbi, mobilitando scribani, traduttori, avvocati, né per dire il vero, Minerbi fu di meno; la causa si trascinò per due anni e in ogni udienza vennero portati argomenti nuovi, sempre più astratti e altrettanto inconsistenti. Alla fine il giudice esasperato convocò l’architetto Andrea Fister affinché eseguisse una perizia. Questi con gli aiutanti perse una mezza giornata davanti al muro incriminato cercando disperatamente, si può dire, i danni che non trovò; stese quindi la perizia di quattro pagine che concluse scrivendo di non capire quale fosse l’oggetto del contenzioso e che, secondo lui tecnico, “La lunga causa è dovuta al semplice gusto dei contendenti di litigare”, per cui a suo avviso la causa sarebbe da comporre pacificamente, cosa che il giudice accettò con notevole solerzia. Il documento finale, sulla carta ufficiale azzurra, porta le firme dei Livaditi parzialmente in caratteri greci, quella di Minerbi in splendida svolazzante calligrafica della scuola ebraica di Livorno, le firme di Fister, degli avvocati, dei traduttori, del giudice – con il sigillo del Tribunale – e infine, per presa visione, del Governatore in persona, il conte Pompeo Brigido…

Sono abbastanza curiosi anche i testamenti dei tre fratelli. Diamante che fu probabilmente considerato fino alla morte come capo-famiglia, lasciò 3.000 fiorini (90 milioni 1980) alla chiesa greca “nell’obbligo di fare tutto l’occorrente per il suo funerale”, 33.000 fiorini (990 milioni) variamente divisi tra le due figlie e la moglie e il resto ai quattro figli maschi; non sono riuscito ad appurare in cosa consistette “il resto”. A differenza del fratello, Stamati lasciò agli estranei qualche decina di fiorini, mentre la casa ed alcune botteghe andavano alla moglie e ai nove figli.
Complicatissimo e rivelatore infine il testamento di Michele: “… in primo luogo lascio al mio figlio Antonio, il primogenito, il magazzeno che oggi è occupato dallo Spezziere e l’altro che è occupato dal Barbiere… Gli lascio un debito di fiorini mille da pagare alla Nazione quando li ricercano, e se non li ricercano da pagare l’interesse, senza nessuna contrarietà perché ha debito la casa. Camere non gli lascio, perché si era comportato male verso di lui genitori, ma lo lascio in libertà, se Dio gli da stato d’averne autorità di alzare un appartamento e di tenere cinque camere e un pezzo di soffitta per li legni…”. Dopo l’altrettanto dettagliato elenco dei crediti e dei debiti riguardanti i beni da lasciare agli altri due tre figli, Michele Livaditi continua: “… lascio a Diamantula un terzo della casa detta Spitale che mi appartiene, e di pagare due mila che ha la casa nella di lei parte, ma se per caso di rendesse avanti di maritarsi, quello che ricavasse sia per essa e nient’altro che la benedizione di Dio, di non poter fare niente senza il permesso della madre e dei fratelli…”.

Linguaggio contorto, da cui però si ricava il fatto sconosciuto, ma di notevole importanza, che la “Nazione greca” rivestisse sistematicamente il ruolo di banchiere dei connazionali che avevano fornito la prova di correttezza commerciale; questa, che si sapeva essere stata una delle funzioni delle comunità ebraiche, dovrà pertanto essere estesa anche ai greci, almeno a quelli di Trieste, benché non ne faccia cenno Stefani nel suo libro sui Greci del Settecento, né le altre storie, ivi compresa quella ufficiale del 1882. La politica perseguita dalla “nazione” o con la terminologia del tardo Settecento, della “Banca della Nazione” spiega anche perché la percentuale del patrimonio immobiliare greco teresiano era di gran lunga superiore a quella che competerebbe alla percentuale dei greci residenti a Trieste.

Una novità è pure quella della originaria destinazione del Palazzo destinato attualmente a “Casa delle Aste” in piazza Goldoni e noto come Ospedale dei Greci; infatti, il testamento di Michele Livaditi lo assegna ai figli, come casa di abitazione.

La generazione successiva dei Livaditi comprendeva ben ventun membri tra maschi e femmine, ma nessuno che emergesse in modo particolare.

Un Diamante Livaditi (1833-1897), salvo errori figlio del semidiseredato Antonio1, quindi appartenente alla quarta generazione triestina, appare come personaggio piuttosto importante nella storia ottocentesca della città; nel 1857 fondò “La Ciarla”, giornale nazionalistico che venne soppresso dopo due anni per ordine della polizia. Terminata quell’esperienza, nel 1859 Livaditi assieme ad Attilio Hortis diresse la sezione triestina della Società Nazionale Italiana2; Tamaro lo annovererà tra i volontari garibaldini. Si dedicò anche alla letteratura con ottime traduzioni dal greco: pubblicò le “Operette morali” che furono definite di tipo leopardiano e un “Galateo letterario”. Sono stati verosimilmente i meriti politico-letterari del Diamante Livaditi il pretesto per destinare una via cittadina ai “Livaditi, antica famiglia triestina”.

Marco Pozzetto

Note di Giovanni Pistolato

1 Il suo nome era Demetrio, non Diamante, come erroneamente indicato dall’articolista. Demetrio Livaditi era figlio di Alessandro, commerciante greco nato a Trieste nel 1797.

2 Altra imprecisione: Demetrio Livaditi non diresse la sezione triestina della Società Nazionale Italiana dopo la chiusura della Ciarla, ma nel periodo della sua pubblicazione (il giornale infatti era strettamente legato all’attività segreta della Società). Suo collaboratore fu l’avvocato Arrigo Hortis, capo del locale partito liberal-nazionale, e non il figlio Attilio (nato solamente nel 1850).